I racconti del Premio Energheia Europa

Dolci fiamme, Tarek Bou Omar_Libano

Racconto segnalato Premio Energheia Libano 2022

traduzione a cura di Katia Basile

Figlio mio, contemplo il tuo profilo rischiarato dalla luna,

le tue ciglia che paiono disegnate,

le tue palpebre chiuse nel tuo sonno innocente.

E ti dico: << Dammi la mano. Tutto andrà bene.>>

Khaled Hosseini Preghiera del Mare

La mamma mi ha ridato fiducia oggi; mi ha mandato da solo alla gastronomia in fondo al paese. Un vasetto di Nutella, mi ha detto, cinque uova e un’altra cosa che non ricordo più.

Spesso, evito di andare fin laggiù: mi occorrono venti minuti a piedi per arrivarci e la gente ogni tanto mi prende in giro. Pensa che io sia strano perché parlo borbottando e cammino sempre a testa bassa. Ma stavolta, tutto è andato liscio. E allora, percorro il cammino che mi riporta a casa e contemplo la luce tenue delle lanterne. Gli alberi incurvati, i rami opachi, le foglie lacerate dal bagliore della luna. Canticchio una canzone, colpendo un sassolino, quando all’improvviso intravedo delle fiamme fluttuare nell’aria. Invadono lo spazio come se avessero voglia di divorare il cielo, l’oscurità, le stelle. Un bagliore giallo scorre nelle loro vene come quello di una lava furiosa.

*

Tutto ha avuto inizio tre mesi fa, a fine gennaio. La scuola organizzava un concorso di poesia e io ero sul palco. Arrivato il mio turno, ho tenuto il microfono, ho chiuso gli occhi, ho atteso che la prima strofa mi venisse in mente, in fondo era solo un saggio e poi più niente. Ho chiuso fortemente gli occhi cercando di concentrarmi il più possibile, ma invano.

Sono rimasto ammutolito per dieci secondi. Ho esitato, ho contratto il viso in una smorfia, in preda al panico. Ho guardato gli spettatori per un istante: mi fissavano con pietà. Non ho osato volgere lo sguardo verso i miei genitori per non vedere il loro volto sopraffatto dalla delusione. E poi, all’improvviso, delle risate hanno invaso la sala. Sono corso dietro le quinte e ho pianto.

La mamma e il papà hanno creduto fosse dovuto allo stress – va tutto bene, piccolo, passa, non è niente di serio… Anch’io la pensavo come loro o piuttosto ho voluto pensarla come loro – non so bene, ho difficoltà a ricordarmi le cose. Ma quando ho cominciato a dimenticare il nome di alcuni compagni, il nome di alcuni prof, le tabelline, come risolvere una semplice equazione, il numero atomico dell’idrogeno e il numero di massa dell’ossigeno – e tutto ciò malgrado la mia particolare passione per la chimica – ho sentito che c’era qualcosa di insolito. Stranamente, i miei voti diminuivano, ma non avevo il coraggio di parlarne ai miei genitori data la terribile situazione in casa.

In casa, i miei genitori urlavano. La ragione era semplice: non si sopportavano più, erano settimane, sei o sette, più o meno, non lo so più, ho difficoltà a ricordarmi le cose. Mi appoggiavo alla porta della mia camera e piangevo in silenzio. Non avevo né fratelli, né sorelle e non raccontavo niente a nessuno. Erano delle faccende private, ciò che accadeva in casa doveva restare in casa.

Sin dall’inizio dei loro litigi, la mia consapevolezza ha cominciato a vacillare: di tanto in tanto, sentivo un male improvviso irrompere nella mia testa, un forte rumore spaccarmi il cranio; mi disconnettevo dal mondo per alcuni minuti, talvolta per ore e spesso non ricordavo più ciò che avevo fatto. Un giorno, ad inizio febbraio, ho picchiato un compagno: si era burlato di me per il mio comportamento davanti al microfono. Gli piaceva infastidire tutti, era il bulletto della mia classe. Quel giorno, il direttore ci ha convocati, me e Caïd. Ha contattato i miei genitori, senza che ne comprendessi il motivo. Quando sono arrivati, erano irritati e a quel punto mi sono difeso:

Vi giuro che non ho fatto niente! Credetemi! Ma il direttore ha mostrato tutto: i video registrati, la lite e non potevo fare altro che abbassare lo sguardo. E così ho abbassato lo sguardo.

*

Le fiamme si levano, mostruose, serpeggiano nell’atmosfera come dei draghi. Volteggiano e sputano ceneri grigiastre. Il loro ruggito si propaga, si intensifica e il loro odore asfissiante si spande.

Fremiti di angoscia fendono le mie spalle. Strizzo gli occhi, accelero il passo. Cerco di distinguere la casa che brucia, ma gli alberi e il fumo si incrociano nel mio campo visivo.

*

Dopo una settimana, mentre ero seduto nel mio banco, Caïd mi ha colpito alla nuca. Ti ha fatto male, vero? Bastardo… Finirai per farti bocciare e tutto il mondo riderà di te, ah ah!

Ho sentito una rabbia tremenda assalirmi, un suono rauco fendermi la testa e poi mi sono ritrovato dal direttore. Ma stavolta per una ragione più grave: avevo cavato l’occhio di Caïd con la mia matita ben appuntita. Da allora, mi sono convinto che i miei neuroni stavano degenerando e che la mia memoria si stava disintegrando poiché non ricordavo davvero nulla di questo secondo disastro che avevo commesso.

Sono stato infine espulso dalla mia scuola. E poiché avevo solo quindici anni, papà ha potuto risolvere il conflitto con i genitori di Caïd pagando loro un’ingente somma di denaro. Ma il denaro non è servito ad iscrivermi ad un’altra scuola poiché era troppo tardi per farlo. Una spiritualità cupa mi ha allora ossessionato, una spiritualità macchiata di solitudine e di impotenza.

Ero un protone imprigionato nel suo nucleo, un elettrone solo, abbandonato sullo strato esterno di un atomo.

Per punirmi, i miei genitori mi hanno chiuso in casa. Sostenevano che in questo modo avrei imparato a non commettere più crimini. Pezzo di merda, cosa ti sta succedendo? Non avevo più il diritto di uscire, il diritto di giocare con la mia Xbox, di chattare con i miei amici che non erano che uno o due, due o tre, tre o quattro – non lo so più – ho difficoltà a ricordarmi le cose.

Per far trascorrere il tempo, leggevo dei manga – Détective Conan, Yu – Gi – Oh!, cose di questo genere. Amavo anche i miti. Qualche volta guardavo delle serie comiche e cercavo di ridere un po’. Li trovavo comunque ridicoli e le idee tenebrose mi distraevano.

Ero un piccolo principe abbandonato sul suo asteroide lontano dagli altri pianeti.

Alle tre del mattino, impigliato nelle mie lenzuola o nei miei incubi, venivo schiaffeggiato dall’insonnia. Sgattaiolavo e salivo sul tetto per sedermi da solo, a gambe incrociate, murato nel mio silenzio. Pensavo alla vita, allo scopo dell’esistenza, a tutto ciò. Perché i miei genitori mi avevano proiettato in un mondo che non comprendevano? La voglia di saltare mi assaliva, la voglia di planare come un piccolo uccello, un piccolo uccello triste per atterrare in un mondo in cui gioia e inquietudine si abbracciano, in cui pace e serenità risuonano, ma non ne facevo niente: ero un vigliacco.

Osservavo allora il cielo, l’oscurità, le costellazioni, cercando di sfuggire dalla mia testa, dai miei ricordi, dalle mie costernazioni.

Ero più isolato di un naufrago su una zattera in mezzo al mare.

Osservavo anche l’oscurità del mare, perlata dalle luci del porto. A sinistra, lontana, ergeva maestosamente una montagna erculea, in cima alla quale potevo intravedere una croce bianca, folgorante come un cerchio disegnato dalla luna. Era raro e bello, il mare e la montagna insieme, legati, avvinghiati, inseparabili come un legame covalente triplo difficile da rompere ed era ciò che distingueva il nostro paese.

Sotto i miei occhi, le macchine sfilavano sull’autostrada, emettendo dei suoni bizzarri come dolci sussurri fantasma.

Le sirene risuonano; delle ambulanze mi passano accanto. Le guardo: sono tre. E poi, un po’ per volta, distinguo un tetto in mattoni avvolto dal fuoco, un tetto rosso che conoscevo molto bene e sul quale avevo l’abitudine di rannicchiarmi per congelare le mie sofferenze, per scappare dalla crudeltà degli adulti.

Negli ultimi mesi, i miei genitori rientravano tardi a casa evitando di incontrarsi. Talvolta ed era molto raro, sentivo la porta della mia camera aprirsi per alcuni secondi. Chiudevo gli occhi. La porta si richiudeva e le mie lacrime sgorgavano fino al cuscino.

E poi, una notte, mentre ero nel mio letto, è scoppiata una nuova discussione. Il nostro matrimonio è stato un errore! Nostro figlio è stato un errore! Papà ha confessato che non ne poteva più e che voleva divorziare. Attendevo un’obiezione della mamma, ma lei ha esultato e ha detto che era la stessa cosa per lei..

  • E Théo? Ha chiesto papà

  • Lo terrai con te.

  • Pensavo fossi tu ad occupartene

  • No. Lo verrò a trovare una volta a settimana e gli darò tutti i soldi che vorrà.

Soldi, soldi, soldi. Sempre soldi. Lei crede che i soldi facciano tutto. Tutti lo credono. E’ per questo che ci detestano nel nostro paese, è per questo che abbiamo tanti nemici ed è per questo che papà riceve sempre delle minacce!

In mia presenza, i miei genitori si comportavano normalmente. Continuavano a dormire nella stessa camera, nello stesso letto affinché io non sospettassi nulla, affinché io non sentissi nulla.

*

Qualcosa vibra in me. Un tumulto di paura e di terrore germina nel mio ventre, risale fino al viso e freme nelle mie tempie. Mi fermo un po’ per assicurarmi che i miei occhi non mentano, che l’immagine sulle mie retine non mi inganni. Poi, corro. Corro a tutta velocità. Le uova mi scappano via, volano, si schiantano al suolo. Il vasetto di Nutella si rompe, si disperde in particelle. Lascio le borse e continuo a correre.

I miei piedi si perdono sull’asfalto, si contraggono nel vuoto mentre cerco di immaginare ciò che è accaduto nell’ultima mezzora. Un corto circuito? No… E’ piuttosto qualcuno che ha provocato tutto!

Arrivato davanti alla villa, sento la detonazione di una finestra, le urla di un’anziana donna in lacrime, i pianti dei ragazzini vicino alla mia dimora. I pompieri sono già lì e come se combattessero l’Idra di Lerna, cercano di spegnere le fiamme in fuga.

I vicini si spintonano portando tutti dei secchi a mano. Alcuni riempiono i rubinetti del nostro giardino, altri a casa propria per non perdere del tempo. Ah, gli attori ipocriti…

Mi fermo davanti alla villa e scruto le fiamme che divorano la porta, i muri, i balconi: divorano il legno, massacrano le pietre, estirpano il cemento.

Penso ai miei genitori, se discutono ancora o se sono già morti. Esplodo con voce graffiata:

MAMMA! PAPA’!

Alcuni vicini si voltano, si precipitano verso di me e chiedono:

  • Ma Théo! Come hai potuto uscire? E dove sono i tuoi genitori!

  • Lasciatemi, sporchi, avidi bbb… bastardi! Avreste vvv…voluto che io fossi lì dentro, io lo so, io!

Mi detesto quando balbetto. Ho una frase in mente che voglio dire, ma subito dopo la dimentico o la storpio. Gli altri lo percepiscono. Ne sono consapevoli, sentono tutto, vedono tutto, ascoltano tutto. Alcuni prendono in giro, altri non dicono niente, ma so che hanno pietà di me. Prima non ero così, non ero mai stato così.

I vicini cercano di consolarmi, lanciandomi delle frasi che la mia testa rifiuta di ascoltare, quando, all’improvviso, una ragazza bionda della mia età, che conosco appena, apre un varco tra loro e mi dice:

  • Théo…

  • Bbb…bastardi! Hanno ucciso i miei genitori! Allontanatevi tutti!

  • Théo, fermati. Può darsi che siano ancora vivi… Se tu vuoi salvarli devi soltanto aiutarci.

Inginocchiato, asciugo una lacrima. Il calore avvolge il mio viso. Per un minuto resto immobile con gli occhi fissi sulla scena. Intorno a me delle scintillle si propagano, volteggiano e poi si eclissano nel nulla.

  • Vai! Mi dice la giovane ragazza. Possono ancora essere salvati!

  • Pos…possono ancora essere salvati, sì!

Gli abitanti del paese si radunano, formano più code da diverse angolazioni. Si passano i secchi l’uno con l’altro, urlano per sbrigarsi il più in fretta possibile. Mi alzo. Mi spingo in avanti. Raccolgo un secchio. Lancio un primo, un secondo, un terzo. E ogni volta che l’acqua sgorga davanti ai miei occhi, frammenti di immagini risuscitano nella mia mente. Un mosaico incompleto che tento di completare. Dei pezzi di puzzle persi in un caos che si ritrovano, si intrecciano.

L’immagine della cucina. Lancio dell’acqua. Poi il suono di una discussione. Raccolgo un secchio. Gli diremo tutto domani, comprenderà. Dannazione, mi libererò di te! Lancio dell’acqua. Apro un accendino. Accendo delle candeline che distribuisco in tutta la casa, per le scale, vicino alla camera chiusa di mamma e papà. Sì, così va bene. Ricevo un secchio. Fantastico. Lancio dell’acqua. L’immagine di una bombola di gas e del tubo che taglio. Ricevo un secchio. Prendo dei soldi, ho fame. Amo le crêpes. Al mattino, la mamma mi ha detto che non c’erano più uova, Nutella e un’altra cosa che non ricordo più – ho difficoltà a ricordarmi le cose. Lancio dell’acqua. Che sarebbe uscita presto per andare a comprarle. Ricevo un secchio. Tu, tu resti qui. Chiudo la porta. La tua punizione non è ancora finita! Incomincio la mia passeggiata. Al mio ritorno, risveglierò la mamma perché mi faccia delle crêpes. Ora, bisogna lasciarla riposare.

Lascio il secchio.

Sento parti del viso lacerarsi e i miei iridi fondersi. Tossisco. Il crepitìo delle fiamme si amplifica. Qualcosa rimbomba nella mia mente. C’è una distorsione. Un suono ambiguo che prende vita, un rumore acuto, troppo acuto.

Percepisco all’improvviso una fiamma sorridermi, una bella fiamma, una dolce fiamma: si direbbe una ninfa graziosa.

  • Avvicinati – mi dice. Non aver paura, piccolo.

La fisso stordito. I suoi capelli ondeggiano, le sue mani oscillano. Il bagliore della luna si riflette sul suo corpo puro, sul suo corpo potente e scivola sulla superficie del mio volto.

  • Forza, ragazzo mio, dammi la mano…tutto andrà bene…

Dietro di me delle voci mi chiamano.

Entra.

Giro la testa da sinistra a destra, 180 gradi. Ormai, tutte le fiamme mi inducono ad abbandonare tutto, mi invitano a dimenticare tutto.

Avanzo.

Le mie tempie si distendono. Le mie gote si avvizziscono. I miei dolori si alleviano e le mie angosce si alleggeriscono.

Dolcemente, le fiamme mi avvolgono, si infiltrano nei miei pori, si incrostano nelle mie cellule.

Sento la loro tenerezza.

Sento la loro dolcezza.

Sento la loro freddezza.

Mi accarezzano e mi coccolano.

Sento all’improvviso le urla dei miei genitori.

Chiudo gli occhi.

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