I racconti del Premio letterario Energheia

Nel lago della fame, Maria Luisa Vanacore_Priolo Gargallo(SR)

Racconto finalista Premio Energheia 2021_XXVII edizione – sezione adulti

Nel sonno prendeva ad agitarsi, era sempre così, ogni notte i pensieri si affollavano, misti ai sogni, impedendole un riposo sereno. Sognava quasi sempre lo stesso luogo, era un immenso lago pacato, languiva quieto, circondato dalla boscaglia assonnata. Non il minimo rullio di fogliame, nell’assenza di folate di vento, era il simbolo della quiete assoluta. Ad un certo punto, il respiro si faceva affannoso, il petto sussultava, ansimava tra un singulto e l’altro. Il cuore si squarciava in un pianto dirompente, grondava di lacrime che correvano veloci lungo il viso, non era motivato quel singhiozzo o non sapeva ricercarne la causa… Si accorgeva, allora, di un fenomeno stranissimo, il lago si risucchiava come in un vortice e le entrava tutto dentro il corpo, sparendo così dalla sua visuale. Lo conteneva tutto dentro di sé quel liquido, immenso, sconfinato, enorme, portandone il peso come il ventre gravido di una madre. Era sempre in quel momento che si destava, trafelata ed affannata, stanca come chi abbia percorso chilometri a piedi con un pianto represso alla gola, le fauci rinsecchite, un grave cerchio alla testa. Si sollevava con un balzo repentino, portando subito le mani al volto per tastarne quell’umido, le lacrime che aveva versato, ma, si ritrovava sempre asciutta, il pianto non era che un prodotto dei suoi sogni. Iniziava quasi sempre in questo modo ansioso e affannoso la sua giornata, portandosi dietro l’enorme peso di quel doloroso incubo sino alle soglie dell’ufficio che varcava, stampandosi sul viso un sorrisetto smaliziato ch’elargiva a piene mani.

Alba era una donna speciale, le sue qualità le aveva sviluppate grandemente, come tutte le persone perfezioniste, riusciva a barcamenarsi in una serie sconfinata di attività. Questo le faceva guadagnare subito la simpatia altrui, ovunque andasse, tutti l’accerchiavano e diventava da subito il simbolo, non lo voleva neppure lei, troppo matura per richiedere l’accentramento delle attenzioni, ma, accadeva sempre così per quella sua innata tendenza a donare. L’ufficio era il suo mondo, profondeva le sue forze al massimo perché tutto potesse filare liscio, non sopportava inutili intoppi, ma, riusciva ugualmente a districarsi, quando essi si verificavano, risolvendo al meglio ogni caso. L’ospedale le mandava sempre i pazienti più difficili, le arrivavano sempre più donne abbandonate o maltrattate che lei, prontamente, accudiva e poneva in terapia. Aveva ideato quel servizio privato di assistenza alle donne sole appena presa la laurea in pedagogia, con l’aiuto dei suoi che le avevano anticipato una bella sommetta e con un team di amici medici, psicologi e assistenti sanitari, si affiancava alle strutture pubbliche ed il Comune, spesso, finanziava quei casi di soggetti più disagiati. Il lavoro non le mancava ed, anzi, aumentava sempre più.

Quella mattina giunse nell’ufficio prima assistenza e accettazione una donna tutta pesta, grondante sangue dalle narici come un fiume, un occhio livido, l’abito lacerato ed un pianto che sapeva di familiare… Avrebbe urlato tutta la sua rabbia, ogni qualvolta giungeva qualche signora malmenata, era sempre il prodotto di un uomo che aveva sfogato la sua rabbia repressa sull’ennesima donna, sull’ultima vittima immolata, su quella donna che quasi sempre rappresentava la proiezione della forza maschile testata sul più debole. Quel giorno, dopo il suo sogno notturno, in cui si era destata meno forte e risoluta del solito, non le andava proprio giù d’ingerire la solita scena da film. Se avesse avuto dinanzi l’uomo che aveva perpetrato tale inumana violenza, quel giorno avrebbe certamente perso il controllo, tanto le faceva rabbia quell’immagine di prima mattina con lo stomaco vuoto e quello strano senso di vomito che l’assaliva ogni giorno al risveglio. A dire il vero, quel senso strano di carenza era il tormento della sua vita, l’attanagliava di frequente, non vi dava un nome o un senso o un volto, troppo assorbita dal proprio perenne bisogno di aiutare gli altri, di donare il proprio amore. Misurava la sua urgenza di trasferire amore con l’ampiezza di quel lago, inconsciamente comprendeva che avevano un legame inscindibile, ma, non aveva mai provato a chiedere a qualche collega di esaminarla e di aiutarla a percorrere a ritroso la storia di quel suo tremendo senso di vuoto.

La mattinata trascorse tra mille impegni e pratiche da sbrigare, ogni tanto incontrava lo sguardo di quella donna seduta ad attendere che la sua pratica si avviasse e sentiva un tremendo vortice all’interno dello stomaco come quel lago risucchiato da dentro… Quella donna, con il suo bagaglio di pestaggio e dolore, infine, tornò a casa accompagnata da un’operatrice che avrebbe provveduto a controllare, insieme alle forze dell’ordine, che il marito non stesse ancora lì ad attenderla per rinverdire la forza della propria violenza su di lei.

***

Tornai a casa con un senso di stanchezza che mi aveva tolto l’ultimo residuo di forze e mi lasciai andare sul divano con una velocità non comune col solo desiderio di lasciarmi defluire ad un riposo senza fine.

Eccolo quel lago immenso, enorme, sconfinato che si stagliava dinanzi ai miei occhi, nessun rumore, quiete… Da lontano vedevo una figura procedermi incontro, non ne distinguevo le fattezze, ma, avvertivo provenire da essa una sensazione familiare, davvero troppo intima. Sì, è lui, il mio papà! Babbo, babbo, babbino mio… I miei passetti sono ravvicinati, corro con quanta forza posso per raggiungerlo, perché non arrivo mai? Le gambe son vicine vicine, basse basse, mi sento piccola, sono piccola…! Eccolo, arriva, è qui vicino a me. Mi guarda, mi sorride, ma, cosa fa? Va via, mi oltrepassa e s’allontana. Il mio pianto gronda come un rivolo impazzito, veloce corre come dissennato. Non si può esprimere il dolore che sente un bambino quando viene rifiutato e allontanato, gli manca il fiato, si sente defraudato, è come se la sua fanciullezza termini anzi tempo. Quella sensazione di abbandono mi toglieva il respiro e mi svuotava l’anima, mentre quel lago innanzi a me prendeva a girare vorticosamente, risucchiandosi, m’entrava dentro con tutto il suo potere d’immensità. Quale affanno mentre riprendevo il fiato, dopo quel solito sogno, il petto squarciato di singulti e quel volto asciutto, stranamente levigato di calore. Mi guardo intorno e vedo i tratti della mia casa ben riconoscibili, mi sento provenire dall’oltretomba, quanto tempo è trascorso? Mi sono addormentata senza nemmeno svestirmi, le due di notte!

La fame mi attanaglia, mi ricordo di non aver nemmeno cenato. Mi levo e vado in cucina per mettere qualcosa sotto i denti. Il frigo è pieno di ogni ben di Dio, ma, mi sembra di non trovar nulla di abbastanza gradevole per colmare quella strana fame che non è che vuoto, un vuoto enorme… un terribile senso di vuoto m’attanaglia, incolmabile, infinito. Finalmente trovo qualcosa da trangugiare, la mangio, ma, è più corretto dire che la divoro, dovrà pur colmarsi quest’assenza, questo vuoto incredibile… E mentre ingoio l’ultimo boccone di quel cibo, non so neanche cos’è, invero, mi sciolgo in un pianto che è lo sfogo di quel dolore trattenuto nel sogno. Non nego il mio essere, la mia fragilità la colgo come i fiori di un prato a primavera, sono infiniti come la mia debolezza.

Mi tornano alla mente immagini sopite, certe gambette rinsecchite, dei piedi piccini che corrono per raggiungere e abbracciare delle gambe forti e possenti. Corrono quei piedini vicini vicini, sembrano non raggiungerle mai quelle gambe amate. E ora che quelle braccette cingono quelle forti gambe per dare amore, un amore grande quanto un lago, una forte mano le stacca, le scuote, le rifiuta… Quel residuo di boccone che ho in bocca diviene un macigno, non riesco a farlo scorrere dalla cavità orale alla trachea, è enorme come il peso del lago che ho dentro il mio ventre, colmo di cibo, sono enorme, inguardabile… Un senso di colpa mi preme, non so se è il cibo che ho divorato senza limiti a farmi tale effetto o quel senso di abbandono che mi ha generato il sogno o il bisogno di trasferire l’immensità del mio amore che non so o che non posso donare. Regna un silenzio che sembra una lama tagliente, sottile, sinistro, rotto solamente da quel pianto amorfo, indecifrabile, inutile. Il pensiero corre al mio lago, lo rivedo nell’immagine del mio sogno e lo sento dentro di me, è tutto il concentrato del mio immenso amore, del mio desiderio sconfinato d’amare. Un pensiero balena alla mente, corre come impazzito, sembra un vortice, volteggia, rotea, strimpella le note impazzite dell’anima, del cuore. Perché questa pazza voglia d’amare, perché? Non avevo sempre creduto che non fosse possibile amare gli altri se non si ha stima di se stessi? Io non ero certa di stimarmi davvero, piuttosto sentivo sempre un grande peso sulle mie spalle, forse non era, poi, tanto semplice per me donarmi agli altri. Era certamente un impegno, visto il mio imponente senso di responsabilità, un forte impegno e basta, il dubbio m’assalì che fosse esclusivamente un obbligo e nulla più… Mi sentii svuotata, svuotata proprio da dentro, come se il mio bel lago di quiete apparente m’avesse abbandonata, vuota come un corpo denudato, smunto, stritolato… Non comprendo bene cosa spinga la mente ad elaborare tali sensazioni, la cosa che più è certa, è che fan male, rivoltano l’essere come al contrario di se stesso.

Non so dire quanto tempo durò tale sensazione di rovinio del corpo, di estrapolazione della propria anima, ma, sembrò infinito e, per la sua stessa modalità d’essere impietoso, apparve insopportabile. Correvano lungo i meandri della mente spezzoni d’immagini, vedevo distintamente quella donna pesta del mattino che piangeva, mi sentivo impotente, un uomo la percuoteva tra i più scabri insulti, la rabbia s’impossessava di me, ma, non potevo soccorrerla, due forti braccia mi allontanavano scostanti. Mi vedo bambina a piangere in un cantuccio, l’oggetto del mio amore, mi manda via, sono stata cattiva, ho fatto arrabbiare il babbo, è lui, mi manda via, non mi vuole più bene. La mamma piange, perché piange la mia mamma? Perchè? Perché piange? Torna da me il mio babbo, mi abbraccia, no, va via, va di nuovo via… Il vuoto, di nuovo quel vuoto che mi strazia, che mi lascia inerme e giù lacrime, finalmente s’è aperta una nuova finestra, uno spiraglio di conoscenza, imparo a guardare negli occhi quel fantasma di bambina esile, scarna, smunta che allontana il cibo che ammorba la sua infanzia tra un morso di pane ed un fascio di accorate lacrime. Quella bimba chi è se non un fantasma, un esserino che ha solo sete e fame d’amore? Allontana quei bocconi di veleno che odorano di assenza, di vuoto come quelle braccia che l’allontanano inesorabilmente, la rifiutano per sempre, per la vita. Il corpo gelido s’empie di calore, una nuova energia lo scalda quieta, serena, vera.

Un nuovo giorno appare all’orizzonte, il mattino s’affaccia timidamente tra le tende di leggero tessuto indiano che adornano le ampie vetrate del soggiorno e contemporaneamente lasciano intravedere i bagliori del mattino che vince la notte e le tenebre. Le ore sono trascorse come un vortice, incontrastate dall’insonnia e dal turbine degli eventi. Un sollievo dolce, caldo mi pervade, mi dona come un ristoro quieto e sereno, pacato. Non sento che quel vuoto colmarsi di me, del mio essere, del mio mondo, del mio volermi. Quanti anni sprecati a rincorrere, nella quiete del cibo, l’amore, quell’amore mancato, irrisolto, allontanato. Mi sento come inutile d’un tratto, ma, è un brevissimo istante, retaggio di tutti quegli anni trascorsi a chiedere, a domandare amore, fingendo di donarlo. Sentivo ch’era finita d’incanto quella ricerca affannosa di gente da amare, a cui poter trasfondere quell’incommensurabile necessità d’amare che sgorgava dal mio irrisolto stato di carenza per troppo non-amore, per troppa voglia d’esserci, per troppo punirsi con un cibo insaziabile, materiale e materico. Avrei amato il mondo intero, se non fosse stato impossibile, vista la sua vastità. E colmavo quel mio sentire con l’amore verso il cibo, un amore volumetrico, consistente, presente, ma, che ha una scadenza, una volta terminato, invece del senso di pienezza, lascia il vuoto, un vuoto ancora più vuoto, un’assenza ancora più assente, che si trasformava sempre in un indicibile senso di colpa, in una paura sconfinata di rimaner sola con i propri mostri, con i propri incubi, con quel dolore che non sai a chi attribuire, di cui non sai individuare la fonte. È una sensazione meravigliosa imparare a guardare il tuo te stesso con i tuoi stessi occhi, è come destarsi da un torpore scontato, è come sognare mete mai ambite, è come crescere senza aspettare, è… Quali e quanti furono gl’istanti d’intenso stupore non saprei dirlo, so solamente che furono attimi di caldo ritrovarsi, di scoperta, sembrava assurdo, ma, ero quasi certa che la notte della paura fosse terminata per sempre, che la causa creduta persa, fosse stata fatalmente recuperata. Non poteva attendermi più nulla, dopo quella notte oscura, in cui le tenebre del mio male d’essere erano state sconfitte e la luce, del mio bisogno di ricevere amore, aveva vinto il buio di una vita apparente, piena di falsi idoli, piena di tutto e degli altri, ma, non di me.

Mi avvicinai alla grande vetrata, scostai la tenda e, nel fiammeggiare dell’alba mattutina, vidi una nuova immagine, un volto mi osservava attento, feci subito per fuggire da quella presenza, ma, ritornai fiduciosa verso la mia proiezione. La mia me stessa era lì dinanzi a me, stanca, sfinita, ma, viva, calda, presente, era davvero là con me e non sarebbe più fuggita da se stessa, stava imparando a guardarsi, a scrutarsi, a sorridersi, ad amarsi. C’era Alba, era tornata o, forse, non c’era mai stata, al posto suo aveva vissuto quella che voleva per forza amare, per forza. Ora c’era quella nuova identità che, egoisticamente e per puro spirito di sopravvivenza, aveva chiesto aiuto, aveva capito che non si può concedere amore senza averne prima avuto in dono. Alba vedeva quella nuova Alba del mattino più forte, energica, era assetata d’amore, si guardava, finalmente, senza pudore e si piaceva, senza vergogna, con orgoglio, con convinzione, con gioia. Poteva recuperare il tempo che aveva perduto a cercare disperatamente amore, fingendo di spargerlo agli altri. Era giovane, la vita era tutta al suo cospetto, pronta per essere vissuta ogni giorno, con difficoltà, ma, con la consapevolezza d’esserci, d’essere presenti, non lasciandosi più vivere, non lasciando più il potere della propria vita nelle mani di quel tiranno despota che, con quel falso senso di sazietà, le rodeva la possibilità di farsi amare per le proprie qualità e non perché la sua presenza diveniva sempre più ingombrante ed invasiva, inopportuna.

Il giorno si faceva alto nel cielo, non vedeva più la sua immagine riflessa nella grande vetrata, ebbe un moto di paura e smarrimento. Corse in bagno, l’investì una luce accecante tra i bagliori del dì e quella delle candide piastrelle che circondavano le pareti e quella lei allo specchio che le mise timore. Si ritrasse. Poi, si riavvicinò e la vide, così, scarmigliata e senza trucco, era persino bella, gradevolmente carina e…, soprattutto, reale. Le ritornò quel consueto sorrisino smaliziato, con cui aveva combattuto la sua malattia, poteva finalmente chiamarla così, ora che ne aveva acquisito  consapevolezza, poteva guardarla finalmente negli occhi, senza averne più timore.

Il messaggio che mi aveva regalato la mia malattia era quello di comprendere che ero bella fuori, è vero, ma, lo ero perché lo ero anche dentro, per il mio carattere, per le mie doti ed il mio valore. Se avessi imparato ad amarmi davvero, avrei potenziato la mia capacità di trasferire amore, quel lago d’amore che sentivo dentro. Il mio lago d’amore potrebbe bastare a sfamare il mondo intero, tanto è sconfinato, ma, un bel po’ lo riserverò a me stessa, per tutto quello che non ho mai avuto e che non ho, volontariamente, voluto ricevere per troppo amore da dare. Voglio dire addio al mio male di vivere, al mio tremendo male oscuro, voglio continuare a leggerne i meandri, guardarlo in faccia, riconoscerlo e sconfiggerlo. Voglio sconfiggere quest’orrendo bisogno di allontanarmi, voglio tornare.

E mentre pronunziava tra sé e sé quelle accorate parole, un raggio di sole filtrava, insinuandosi tra gl’intagli del ricamo della tenda, posandosi prepotentemente sulla sua gota destra, a rimandar riflessi argentati da quegli ultimi cristallini residui di lacrime di gioia, che brillavano sul suo nuovo viso, come una pioggerella di luce. Una nuova luce splendeva, un riflesso d’amore.