I racconti del Premio letterario Energheia

Ultimo giorno, Lucrezia Favilla_Pisa

Racconto finalista Premio Energheia 2021_XXVII edizione – sezione giovani

Tutto intorno a lei era fuoco. Le case, la scuola, il municipio, tutto bruciava; le fiamme si alzavano verso il cielo e formavano una coltre spessa che entrava nella bocca e opprimeva i polmoni. Tutto bruciava ma le bombe non si fermavano. Gli Alleati continuavano a bombardare, non interessava loro chi cadeva, chi moriva, chi colpivano. L’importante era ferire il nemico. Lei continuava a correre e a sparare tra le fiamme. Era rimasta ormai sola, il suo battaglione era stato sterminato in parte dagli spari dei tedeschi, in parte dalle bombe dei loro alleati. Continuava a correre il più veloce possibile, pensando a quello che le avrebbero fatto se l’avessero presa molto peggio dei colpi che infliggevano agli uomini. Correva, correva, vedeva delle famiglie sfollate, delle donne disperate che gridavano il nome dei loro figli morti sotto le macerie, vedeva una bambina che camminava lenta, con il suo pupazzo in mano, con il volto sfregiato dalla scheggia di una bomba. Ma non si poteva fermare ad aiutare tutte quelle persone innocenti, le vere vittime della guerra, che soffrivano più dei morti perché continuavano a vivere. Si allontanò dalla strada principale, credendo in questo modo di seminare i tedeschi. Ma la strada laterale che imboccò era un vicolo cieco. Ormai era troppo tardi per tornare indietro. La morte le passò davanti ma decise di non portarla con sé. Vide una piccola finestra di una cantina. Spaccò uno dei vetri con il calcio del fucile ed entrò. Nascosta in un angolo vi era una famiglia, che si era andata a riparare là sotto quando erano iniziati i bombardamenti. Anna fece loro segno di fare silenzio e si nascose anche lei in un angolo buio. I tedeschi passarono ma non si fermarono. Erano salvi. Quando sentì i passi tedeschi e le loro voci dure allontanarsi, si alzò con cautela mentre la famiglia a cui apparteneva la cantina rimaneva nascosta, in silenzio. Gettò loro appena uno sguardo distratto, per paura di incontrare i loro occhi spaventati e tornò sui suoi passi. Scappò per i campi, nascondendo il mitra pesante sotto i vestiti e riuscendo, così, a non farsi scorgere dai tedeschi che pattugliavano la zona. Il sole era tornato a splendere sulla campagna. Il fumo delle bombe si era dissipato, come se nulla fosse mai successo. Le mise quasi felicità vedere la campagna così serena e placida, le spighe di grano color oro illuminate dal sole come lo erano sempre state, anche quando da bambina sua madre la portava a giocare insieme ai suoi fratelli al laghetto in mezzo alla radura lì vicino. La stessa radura che ora raggiunse correndo velocemente, poiché lì si trovavano i suoi compagni. Quando arrivò, alcuni partigiani le si avvicinarono per chiederle cosa fosse successo. Il suo fucile era tinto di rosso in prossimità del calcio, ma solo vedendo i volti preoccupati dei suoi compagni, Anna se ne accorse e si rese conto di avere le mani ferite, probabilmente per via dei vetri rotti della finestra su cui si era arrampicata. Si lasciò fasciare in silenzio da Rina, che non osava chiederle niente, vedendole il viso così cupo. Doveva essere una sortita molto facile, non ci sarebbero dovuti essere intoppi, avrebbero dovuto piazzare delle bombe sotto il ponte lì vicino. Così era stato fatto, la notte li aveva assistiti. Tutto sembrava andare bene, poi era passata una pattuglia tedesca e li aveva avvistati. Erano iniziati gli spari, interrotti subito dagli aerei alleati che planando basso, avevano visto la baruffa ed avevano iniziato a lanciare le bombe. La battaglia era andata avanti a lungo. Al far del giorno i partigiani avevano iniziato a retrocedere ed i tedeschi ad inseguirli. Le bombe alleate sembravano solo scalfirli, mentre sembravano colpire solo i partigiani. Erano arrivati ad un villaggio vicino dove Anna aveva perso di vista gran parte dei suoi compagni, anche Marco. Nel silenzio che era calato nella radura si intromise un rumore di rami spezzati sotto il peso di scarponi pesanti. Tutti i partigiani furono subito all’erta ed imbracciarono i loro fucili. Ma non erano i tedeschi a penetrare nella valle. Era Marco. Nel vederlo, Anna non riuscì a trattenere la gioia e gli corse incontro. Lui la guardò con occhi vuoti, come se fosse altrove, e le cadde tra le braccia, svenuto. Svenuto ma vivo. Lo portarono nella baracca, lo sdraiarono e gli strapparono la maglia. Continuava a perdere sangue da una ferita nel basso ventre, che sembrava però non essere particolarmente grave, perciò Anna si tranquillizzò e tornò all’aperto. Si allontanò dal campo, da tutti, per pensare. Pensare! Da tempo non aveva avuto tempo per pensare, troppo impegnata a sopravvivere. Eppure pensare è necessario, è ciò che ci rende uomini. Per tanti anni non aveva pensato, aveva vissuto alla giornata, non fermandosi mai a riflettere perché non le sembrava utile. Ed ora si sentiva colpevole anche lei, perché nulla aveva fatto, era restata indifferente, incurante di tutto ciò che non la riguardasse direttamente, incurante dell’odio che cresceva. Non aveva mai tentato di cambiare le cose. Sapeva di non essere colpevole, eppure provava rimpianto. Anche per Marco si sentiva colpevole, non aveva fatto nulla per aiutarlo, mentre lui aveva fatto tanto per lei. L’aveva perso di vista, cosa avrebbe potuto fare? “Niente”, le suggeriva una parte di sé, tutto le diceva la sua coscienza. Provare rimorso le corrodeva l’anima ma non cambiava il passato. Quindi che senso aveva star lì a rimuginare? Si sedette sulla riva del fiume che scorreva lì vicino. Un vento freddo le scompigliava i capelli mentre guardava l’orizzonte. Un paesaggio naturale si stagliava davanti a lei, solo alberi, niente case, quel luogo era al di fuori della società, un piccolo Eden che faceva sembrare la guerra un lontano ricordo, qualcosa di distante. Mentre stava lì seduta, dimenticò i suoi problemi, i suoi affanni, chiuse gli occhi e tutto ciò che poteva udire era il canto degli uccellini, che si chiamavano tra di loro, si rincorrevano, volavano via lontano. Sentiva anche lo scroscio del lento scorrere del fiume che trascinava fino al mare i massi, i tronchi. Era così facile per gli animali scappare. Avrebbe quasi voluto essere un uccellino per volare via, o un pesce per nuotare lontano. Non abbiamo mai desiderato tutti, almeno una volta, di scappare? Anche lei in quel momento lo desiderava, e sarebbe stato così facile per lei farlo, abbandonare tutti, correre tra i boschi, tornare in città, nascondersi e aspettare la fine della guerra. Questo pensiero la sfiorò, la toccò, la prese, iniziò a pensare a come attuare il suo piano. Ma un altro pensiero la riportò alla realtà: Marco. Non poteva lasciarlo morire in agonia, o comunque lasciarlo ferito. Il suo pensiero non l’abbandonava mai, non perché lo amasse, amare non le era possibile dopo ciò che era successo, ma perché a lui doveva tutto. Abbandonarlo era impensabile. Eppure la guerra la odiava, vedere morire i suoi compagni accanto a lei era orribile, come poteva sopportare tutto questo anche per un solo ultimo giorno? Tra poco sarebbe tutto finito, le avevano detto; Mussolini sarebbe stato preso ed i fascisti sconfitti, l’Italia sarebbe tornata ad essere libera. Da troppo però combattevano, tutti erano allo stremo. Ormai anche i più giovani, i più forti e coraggiosi non ce la facevano più, ogni notte tornavano, dopo aver minato un ponte, con il viso distrutto e stanco, lei cercava di parlare loro per tirarli su di morale, ma era scacciata quasi sempre, o le rispondevano con risate amare. Niente si poteva più fare, se non pregare, pregare che finisse presto. Era già aprile inoltrato, troppo era passato dall’inizio di tutto. I suoi occhi erano sempre chiusi mentre pensava tutto questo, ma li riaprì quando le sembrò di udire qualcosa, un fruscio, leggero, come di passi tra i rovi. Guardò davanti a lei, sull’altra sponda, ma niente ora sembrava muoversi né si udiva alcunché. Eppure sapeva che il suo udito non poteva ingannarla, non dopo due anni di continua veglia notturna e di paura mattutina. Cautamente si alzò e si allontanò dalla riva per andarsi a nascondere tra i rovi fitti dietro di lei. Il rumore era ancora flebile quando l’aveva udito, perciò chiunque o qualunque cosa fosse non aveva potuto vederla seduta sulla riva del fiume. O almeno così sperava. Per qualche minuto rimase in ascolto, ma tutto sembrava tacere, solo il suo cuore batteva all’impazzata, la sua fronte era imperlata di sudore, l’adrenalina saliva. Poi un rumore. Ancora un lento fruscio tra i cespugli, come se qualcuno si stesse trascinando morente. Il rumore iniziò ad avvicinarsi. Ora riusciva ad udirlo bene. Non era un lento fruscio, ma un rumore di passi di qualcuno che scostava i cespugli al suo passaggio cercando di fare meno rumore possibile. Poi li vide. Erano quattro uomini, in divisa militare con stern in braccio che si muovevano cautamente tra i cespugli, sdraiati quasi sul terreno; si guardavano intorno per cercare di vedere qualcosa senza farsi scorgere. Erano brigate nere. Ora doveva correre per avvisare gli altri, prima che guadassero il fiume e trovassero l’accampamento. Ma non doveva farsi scorgere se non voleva vanificare i suoi sforzi. Si mise a quattro zampe per restare nascosta tra i cespugli ed iniziò a tornare indietro nel modo più veloce possibile. Muovendosi così stava però spostando i rovi sopra di lei, ma se ne accorse troppo tardi, quando i suoi movimenti repentini, provocando lo spostamento dei rovi sopra di lei, ne rivelarono la presenza agli inseguitori che, nel tentativo di catturarla, erano usciti allo scoperto e avevano iniziato a correre non cercando più di nascondersi. Ormai l’avevano vista. Si alzò in piedi e si mise a correre. Dietro di lei i fascisti urlavano e sparavano, senza mai colpirla, sprecando colpi. Correva più veloce che poteva, l’accampamento sembrava lontano chilometri; correva e il respiro le si faceva affannoso sempre di più, ma dietro di lei gli spari erano cessati, sentiva solo il rumore degli stivali dei suoi inseguitori che le sembravano sempre più vicini. Ora vedeva l’accampamento avvicinarsi. Appena fu vicina alla casupola iniziò ad urlare “Fascisti! Fascisti!”. Alcuni dei suoi compagni erano fuori, seduti per terra che parlavano, ma appena sentirono il suo urlo imbracciarono i fucili. Dalla casupola uscì di corsa il capitano con il viso preoccupato, imbracciando anche lui un fucile. Anna si fermò vicino a lui che subito le chiese quanti fossero e da dove venissero. Lei gli disse tutto ciò che aveva visto e corse a prendere un fucile dentro la casupola. Quando tornò, i suoi compagni erano già posizionati dietro ad una collinetta che si trovava davanti al campo, che permetteva di non farsi vedere ma di scorgere tutto quello che stava davanti. Si posizionò anche lei insieme a loro, lo stern puntato nella direzione da cui sarebbero dovuti arrivare i nemici. Accanto a lei c’era Balilla, il più piccolo della compagnia, solo tredici anni, che da poco era entrato nella loro brigata. Un bambino imbracciava quel fucile con il volto concentrato, un bambino che sarebbe dovuto essere a giocare con i suoi compagni in quel momento, i suoi unici pensieri sarebbero dovuti essere la scuola, i suoi amici, la sua famiglia, i sui amori infantili; il suo pensiero primario non sarebbe dovuto essere solo sopravvivere; la guerra l’avrebbe dovuta sentir nominare solo nei libri di scuola o in quelli di narrativa, non avrebbe dovuto morire a causa di questa. Quel bambino coraggioso aveva abbandonato tutto ed era corso da loro per sacrificarsi, per la libertà, eppure non era giusto, non doveva trovarsi lì. Anche il capitano doveva avere in quel momento i suoi stessi pensieri, poiché si avvicinò a Balilla e gli disse di tornare nella casupola, insieme al Rosso e a Minia. Il bambino si girò verso di lui e lo guardò coi suoi occhi grandi, innocenti ma decisi e gli disse che non se ne sarebbe andato finché non avessimo sconfitto i cattivi. In quegli occhi vide brillare il coraggio, coraggio che spesso mancava anche agli uomini più maturi. Poi distolse il suo sguardo da quel piccolo volto perché sentì un rumore di passi. I neri erano cauti, avevano capito che quella partigiana era corsa dai suoi compagni. Il viso del capitano era teso, anche lui aveva sentito quei passi, ma non si scorgeva ancora nessuno. Tra gli alberi più vicini videro muoversi qualcosa. “Fuoco” gridò il capitano, e tutti iniziarono a sparare, anche il piccolo Balilla con più foga di tutti. I fascisti spararono a loro volta, uno di loro fu colpito dai partigiani, ne sentirono l’urlo squarciare il cielo. Gli spari continuarono a volare da entrambe le parti, ma sembravano quasi inutili, colpi sparati al vento. Il capitano si era reso conto di tutto questo: dovevamo sbloccare la situazione se volevamo prevalere. Allora lui stesso si alzò dalla sua postazione, e cercando comunque di rimanere abbastanza protetto, continuò a sparare, mirando con precisione verso i nemici che ora vedeva chiaramente. Anche Balilla si alzò insieme a lui, seguendo il suo capitano senza paura. Pian piano anche altri partigiani si alzarono, mentre alcuni rimasero nascosti. Il capitano ora si ergeva sulla collina, quasi incurante dei colpi nemici. Ne aveva ucciso un altro dei loro: ora erano rimasti in due, entrambi ben nascosti tra le felci. Tentava di mirare con precisione verso il punto da cui provenivano gli spari, e non si accorse che uno dei fascisti stava puntando proprio lui, che ormai non era più protetto da niente. Lui non se ne accorse, ma Balilla sì. Vide il fascista alzarsi e sparare e, senza pensare, si gettò sul capitano, ricevendo la pallottola che sarebbe toccata a quest’ultimo. Il capitano sentì accasciarsi su di lui il corpo del povero bambino agonizzante. Si rialzò, lo prese tra le braccia e si nascose con lui dietro la collina. Frattanto i partigiani continuavano a sparare, ed avevano colpito un altro nemico, ne era ormai rimasto uno solo che ben presto finì le munizioni e decise di arrendersi. Ma il capitano non prestò attenzione a quello che avveniva intorno a lui. Teneva tra le braccia quel bambino agonizzante, il proiettile gli si era conficcato nel petto ma non lo aveva subito ucciso, lo costringeva a soffrire, come se non avesse già sofferto abbastanza. Sorrideva il piccolo Balilla, nonostante tutto. Con le ultime forze rimaste si sforzava di parlare al suo capitano, che per lui era stato come un padre :<<Capitano, capitano io… io mi sento di morire>> pronunciava queste parole con flebile voce, mentre il sangue gli usciva dalla bocca :<< No Balilla no, ora ti porteremo di là e ti aiuteremo, si risolverà tutto>> <<No capitano la prego, non, non mi menta, io, io non sono più un bambino. Io>> si fermò per tossire<< Io so che è la fine. Le chiedo solo una cosa>> si fermò e restò in silenzio <<Cosa, cosa, parla ti prego>> il bambino aveva chiuso gli occhi, ma non era ancora la fine per lui. Il capitano lo scosse e il bambino li riaprì, ma restò comunque in silenzio <<Parlami parlami, non è la fine parlami, devi farcela>>. Le lacrime stavano iniziando a sgorgare sul volto di quell’uomo duro, freddo, calcolatore ma che era pur sempre un uomo. Il bambino aprì infine le labbra e riuscì a trovare il fiato per dire queste ultime semplici parole <<Non mi dimenticate>>. Poi sorrise, chiuse gli occhi e spirò. Aveva solo tredici anni. Anna, che aveva visto ogni cosa, si avvicinò al capitano. Era stata lei ad uccidere l’uomo che aveva sparato a Balilla. Mise una mano sulla spalla del capitano, per cercare di consolarlo, ma quando lui si girò verso di lei il suo viso era già asciutto. Ora era tornato ad essere un comandante. Si alzò, portando in braccio il piccolo e non disse una parola finché non arrivarono alla capanna. Con in braccio il bambino si rivolse a tutti e disse << Compagni, dobbiamo andarcene da qui. Se i fascisti sono arrivati una volta potrebbero tornare, anzi, potrebbero già essere in cammino in questo momento. Quindi prendete tutti i fucili che riuscite e scappiamo verso il primo presidio partigiano più vicino. Prima però dobbiamo dare degna sepoltura al piccolo. Scavate una fossa velocemente, vicino a quegli alberi, in un posto che si possa riconoscere. Quando sarà finita la guerra torneremo qui, per lui, a commemorarlo, non solo noi ma tutti, tutti gli italiani, perché lui è un eroe che si è sacrificato per i suoi compagni, per la patria, per la libertà. Non dobbiamo dimenticarlo>> Presero tutte le loro cose, che erano alquanto poche, velocemente, ma sul loro volto era scomparsa la determinazione, l’adrenalina, il desiderio di combattere ed era rimasta solo la stanchezza. Guardando i loro volti si notavano particolari che prima sembravano non esistere: le occhiaie profonde incavavano i loro occhi spenti, le rughe solcavano la loro fronte e le oro guance, le labbra erano rotte e screpolate. Erano invecchiati in poco tempo, avevano vent’anni quando erano entrati nella Resistenza, quando ne uscirono ne avevano settanta. Anna entrò nella casupola. Marco era sveglio e guardava tutti con aria interrogativa. Percepiva il loro dolore, ma non osava turbare i compagni con inutili domande. Nemmeno Anna gli parlò, lo aiutò ad alzarsi in silenzio, e sorreggendolo lo portò fuori della casupola per incamminarsi con gli altri verso una meta sconosciuta. La camminata sarebbe stata lunga e faticosa. Nessuno parlava, tutti riflettevano. Qualcosa lampeggiò tra i cespugli. Poi un colpo ruppe il silenzio ed Anna si sentì colpire in pieno petto. Il momento più importante della sua vita, in cui tutto per lei era cambiato, le passò davanti in un secondo. Tutto era confuso. Vide in un flash i nazisti che irrompevano nella sua casa e portavano via la sua famiglia, tutti tranne sua sorella che per il panico non riusciva a muoversi. Anna cercava di muoverla, ma ora come allora si sentiva impotente. Poi tutto per sua sorella era finito. Ma non per lei, non allora. Era stata trascinata di forza da un nazista fuori, davanti ad un muro, insieme alla sua famiglia. I suoi genitori erano morti abbracciandola, colpiti dagli spari dei mitra, mentre lei era sopravvissuta miracolosamente. Ma era morta nell’anima. Si era rialzata dal luogo della strage a fatica. La gamba sanguinava e le faceva male ma era riuscita zoppicando, cadendo, strisciando ad allontanarsi dal luogo della strage ed a raggiungere la radura vicina, convincendosi di essere destinata a morire in quel luogo. Ma ancora non era il suo momento. Si era sentita sollevare da terra, qualcuno aveva iniziato a scuoterla e l’aveva svegliata dal suo sonno di morte. Tutto intorno a lei era confuso. Come in sogno si era vista trasportare in mezzo ai boschi da una figura dai contorni indefiniti che le gridava di tenere duro e ogni tanto le pizzicava il braccio per tenerla sveglia. Quell’uomo era Marco, nome di battaglia il Rosso. L’aveva salvata e l’aveva accolta tra i partigiani, le aveva spiegato chi fossero e per cosa combattessero, ma soprattutto le aveva fatto di nuovo provare qualcosa. Aveva provato di nuovo amore, amore per la libertà, la pace, per la patria ed aveva combattuto per questo. Vedeva Marco sopra di sé, tentava ancora una volta di salvarla. Era riuscito a salvare la sua anima ma ormai era troppo tardi per salvare il suo corpo. Anna tentò di sorridergli, di parlargli, ma non aveva più fiato in gola per farlo. Avrebbe voluto dirgli soltanto grazie, l’avrebbe ringraziato perché le aveva insegnato ad essere forte, coraggiosa, l’aveva spinta a lottare per degli ideali, l’aveva fatta sentire parte di qualcosa di più grande, qualcosa che avrebbe lasciato un segno nella storia. Anche nel suo piccolo lei avrebbe lasciato un segno nel cuore di coloro che mettono la libertà al primo posto. Il dolore stava diventando lancinante. Moriva lentamente, era stata colpita in pieno petto ma non al cuore. Eppure, nonostante il dolore, continuava a non pentirsi delle sue scelte. Era fiera della donna che era diventata, perché aveva avuto la forza, forse troppo tardi però, di distinguersi da tutti gli altri, di non restare indifferente, di prendere in mano il suo destino. Sperava soltanto che le nuove generazioni non fossero come prima era lei, e che non dimenticassero tutto ciò che era avvenuto. Sperava che la loro storia fosse raccontata sui libri di scuola, la loro storia semplice ma vera che sarebbe entrata nei cuori delle persone perché ognuno l’avrebbe sentita come propria; e magari ascoltando la sua triste storia, i giovani avrebbero capito quanto la loro libertà era costata, e quanto, se non fossero stati vigili, sarebbe stato facile perderla. I giovani di domani avrebbero dovuto portare avanti la loro lotta. Una lotta senza armi, ma ideologica contro la discriminazione, il pregiudizio, l’odio. Avrebbero dovuto combattere per far sì che la memoria non si offuscasse, che l’odio non dilagasse e che la pace permanesse. Ma la loro lotta sarebbe stata la più difficile, perché sarebbero stati soli.Soli come lei si sentiva in questo momento, con il corpo freddo ed immobile. Ma il suo ultimo pensiero fu di speranza. Perché la speranza è l’ultima a morire. Nonostante tutto.