I racconti del Premio letterario Energheia

Thunder, Angela Flori_Alatri(FR)

Racconto finalista Premio Energheia 2020_XXVI edizione – sezione adulti

Menzione Giuria Premio Energheia 2020

Passa la notizia alla televisione. La tizia del tigì, con il sorriso fermo in faccia e i titoli che corrono sul petto, dice che sulla Statale 117 è stato trovato un ragazzino.

Cioè il corpo senza vita di un ragazzino.

Sullo schermo, in primo piano, tra gente che intralcia e si mette a curiosare, sbuca una bicicletta, che sembra nuova di zecca, però col manubrio ammaccato, e poi una scarpa, in mezzo alla campagna gialla. Una scarpa, una sola scarpa sull’erba. Poi un uomo che piange, deve essere il padre, la faccia accartocciata che sembra quella verza puzzolente, non so se avete presente. Salta fuori che lui, il ragazzino, aveva quindici anni. La mia età.

Mi sgolo a chiamare: «Marco, vieni a sentire! Parlano d’un pirata della strada!»

Mio fratello arriva che il servizio è praticamente finito, la giornalista sorride già su un altro morto, trovato finalmente dopo giorni di ricerche. Un incidente in montagna eccetera eccetera. Figurarsi, avranno trovato un ghiacciolo. Un ghiacciolo umano gigantesco. Eh eh.

«Possibile che non ti muovi mai?»

Barcolla dalla stanchezza, entra in cucina e si mette ai fornelli, in silenzio, come fosse solo. Come se non mi vedesse o io fossi trasparente, che cazzo. È chiaro che non vuole starmi a sentire e i telegiornali lo annoiano a morte. Io però ci tengo, siamo io e lui, lui e io. Non mi pare che abbiamo alternativa, no? Dobbiamo contare uno sull’altro, sennò che diavolo!

Il mondo non gira lontano da noi, ci siamo immersi e non possiamo far finta di niente. Dobbiamo sforzarci di vivere meglio che possiamo. Provo a spiegarglielo, sperando che non si arrabbi.

Invece si arrabbia.

Urla di non rompere. Al prossimo tigì ripeteranno la notizia e non si sarà perso proprio niente.

Sarà, ma intanto io fremo.

La pasta è pronta, la scola. Io zitto apparecchio due piatti, due forchette e un bicchiere. Ci beviamo in due, tanto per risparmiare. Tocca a me lavare i piatti.

Metto in bocca un fusillo dopo l’altro, una montagna di fusilli appiccicosi d’olio che neanche mi piacciono. Me li ingoio con la testa altrove e gli occhi alla tivù. Adesso ci voleva di declamare un solenne discorso sull’imbecillità di Marco, che non coglie la differenza, ma proprio non la coglie, tra il cazzeggio e la roba seria. Dovrei fare una grande scena, ma non mi riesce. Mi guarda con lo sbrodolo di sugo sul mento.

«Che c’è da ridere?»

«C’è che fai schifo. Cos’è che ci hai in faccia? Una merda di uccello?»

Lo fa apposta: apre la bocca con le fauci piene di fusilli impastoiati e s’avvicina, traboccante di bolo rossastro, come dovesse vomitarmelo addosso. Allora lo bombardo di fusilli, lanciandoglieli prima con la mano, poi col rinforzo di contraerea. Cioè me li metto in bocca e glieli soffio addosso, come siluri. Abbastanza divertente. Peccato che presto mi finiscono le munizioni nel piatto, cazzo li avevo mangiati quasi tutti, e mi tocca scappare intorno al tavolo, mentre Marco m’insegue.

Mio fratello è così. È uno spasso, anche quando non si impegna a esserlo. Se per esempio non vuole studiare inventa le storie più incommensurabilmente vere, ma proprio davvero senza discrepanze, e i prof finiscono per credergli. Non lo puoi neppure mettere in discussione, perché fa il diavolo a quattro, che t’improvvisa pure lo sforzo di sembrare deluso. Quando qualcuno lo tormenta, finge d’essere sordo. Se gli piace una ragazza e quella non diventa minimo una fan sfegatata di entrambi, voglio dire anche mia, Marco non prende neanche in considerazione l’eventualità di fidanzarsi con lei; oppure ci si fidanza e magari poi la molla, perché evidentemente non è giusta. Io sono importante, ovvio. Intanto che papà e mamma non ci sono, la famiglia siamo noi due. Di ragazze ne ha portate a casa dozzine: per studiare, giocare alla play, vedere partite di basket, non v’ho detto che Marco va matto per il basket. Abbastanza attraenti un po’ tutte, ma nessuna come Carola. Con Carola mangiamo cereali al cioccolato o patatine piccanti davanti alla tivù, giochiamo coi cuscini, a darci pugni sulle braccia, a infliggerci colpi mortali. Non è per la forma o per stronzate del genere che non si toccano o sbaciucchiano o tutto il resto; è per rispetto a me che sono ancora in quinta e vedere due che lo fanno, anche se uno dei due è mio fratello, anzi, proprio perché è mio fratello, potrebbe essere… tipo… scioccante. Magari vengo su turbato e in tutta la mia vita non riesco a farmi una relazione stabile e duratura. Non lo so, potrebbe essere. È una mia teoria.

«Facciamo due tiri?»

Annuisco, sempre disponibile. Per un attimo mi viene in mente il prof di matematica che ogni santa volta mi chiede di mostrargli i compiti, scopre che non ce li ho e attacca la solita solfa, tutto un repertorio di minacce e buoni consigli. Ci tiene, povero Cristo. Magari domani non vado a scuola e gliela risparmio.

«Andiamo alla villa comunale, che c’è sempre gente e becchiamo qualcuno per le squadre».

Prende le chiavi della Panda e io capisco subito che è una stupidaggine.

«Non in macchina. Ci vedono».

«E allora, intelligentone? Sforzati di valutare le cose per quello che sono. Quante volte m’hanno visto guidare fino alla Cadorna, quando andiamo a scuola? Quante volte siamo corsi in macchina ai prati della villa comunale?»

Protesto che non è il momento, col ragazzino morto e tutto il casino che sta succedendo.

Alza le spalle.

«Dobbiamo continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto».

Del resto a che serve una macchina parcheggiata in cortile se nessuno la usa? Marco non ha ancora la patente, e non ha neppure diciotto anni, che è il minimo per guidare. Ma nessuno glielo può impedire. Nessuno può impedirgli di schiacciare l’acceleratore e sfrecciare con una mano sul volante e una fuori dal finestrino, aperta controvento, come uno schiaffo innescato per la gente sulla strada. Nessuno.

Ha ragione. Alla villa già gli amici s’allenano coi passaggi in porta. Salutiamo e Marco propone di fare le squadre, scegliendo alternativamente, lui e l’altro caposquadra, prima i bravi, poi le schiappe. Me, però, mi sceglie per primo. Quando siamo tutti schierati, litigiosamente ci buttiamo sul pallone, senza regole e senza tattiche. L’unica è che i calci d’angolo non li battiamo, ce li accumuliamo quattro a quattro trasformandoli in rigori. Quattro corner: un rigore. Adesso tocca a noi battere. E scegliamo Marco, che è già in posizione. Loro s’ammassano in difesa, snervati.

Finisce che segna, che vinciamo, che ci insultano, e dobbiamo spartire Marco e il portiere.

Alla pubblicità, sulle ginocchia sbucciate del figlio, una mamma stende il cerotto Pic Indolor. Io invece me le tengo così, ci soffio sopra e con l’unghia scavo nello sfregio per prolungarlo. Mi piace vederlo lungo lungo, asserpentato sugli stinchi, un po’ verdi di livido, un po’ d’erba.

E come potrebbe, mia mamma, mettermi i cerotti? Lei c’è dal venerdì dopocena alla domenica dopopranzo.

Papà tutti i giorni dal dopocena alla colazione.

Certe notti resisto al sonno finché non rientra. E non è semplice accorgersene, tanto è bravo a muoversi al buio. Fatto sta che la mattina ti ritrovi nel lavello, insieme con la tazza della colazione, i due piatti che Marco gli lascia rovesciati uno sull’altro, con la cena in mezzo. E sai ch’è passato da casa. Magari s’è sporto pure in camera a darci il bacio della buona notte, discretamente da non disturbarci il sonno. Può essere.

Io ho una mia teoria: non è giusto che mia madre abbandoni la nostra famiglia per accudirne un’altra e che noi si debba restare in attesa del fine settimana per tenerci un po’ di lei. Che poi, per modo di dire: a casa, nel fine settimana, non le avanza nulla da darci. È stanca: di cibi da cucinare, letti da rifare, bagni da pulire, furiosamente stanca di tutti, persone, case, cose. In generale è sfinita dalla vecchia, non mi ricordo come si chiama. Vecchia, noi la chiamiamo così. Ché se mia madre non la vestisse, pulisse, nutrisse e compagnia bella, ogni cazzo di giorno e ogni cazzo di notte dal lunedì al venerdì, chissà che fine farebbe. Morirebbe come il ragazzino del tigì. Ma non glielo farebbero a lei un servizio televisivo. Voglio dire: è normale morire a un certo punto o no? Quando sei vecchio te lo aspetti, tutti se lo aspettano. E comunque non verrebbe nessuno a piangere per lei davanti alla telecamera. Mamma dice che la vecchia non ha un cane. Nessuno che l’abbia a cuore, nobody.

Una volta ci sono stato, dalla vecchia, una specie di gigante in camicia da notte che sputava. L’aria della casa era più vecchia di lei. Ve lo immaginate? Giuro che tossiva e sputava. Sputava e tossiva pezzi di polmone dentro una bacinella sotto al mento. Mia mamma gli puliva la bocca con l’asciugamano e io ho pensato agli schizzi, come rimbalzavano nella bacinella e le imbrattavano le braccia e forse l’ammalavano.

Ma non è contagiosa la vecchia, se non è crepata ancora. Io quella volta mi figuravo succedesse in un paio di giorni… E invece campa. Con l’aiuto di Dio, dice mia madre, e non so se Dio serve per aiutare la vecchia o per aiutare noi, visto che il lavoro di mamma ci serve.

Però se muore sono sicuro che un’altra moribonda mamma la trova facile, perché è brava e paziente. Pazientissima. Basta che non prenda lavoro con un vecchio. Io non ce la vedo mia mamma che spoglia, lava e veste un vecchio, col suo coso appassito in bella mostra. Per carità.

S’è fatta sera, in punta di piedi sgattaiolo in camera e vedo Marco con un braccio rovesciato dal materasso, lungo a terra, le dita aperte sul pavimento.

«L’hai visto poi il tigì? Marco? Non fare lo scemo! Rispondi: l’hai visto o no?»

« …»

«Marco?»

Continuo a chiamarlo, pronto a prenderlo a calci per questi scherzi di merda, la faccia terribilmente seria.

«Ehi! Marco, adesso basta.»

Non ce la faccio ad avvicinarmi, proprio non ce la faccio. Gli guardo il torace, se s’alza e s’abbassa

come dev’essere, ma è in penombra, non vedo niente.

Lo chiamo, lo chiamo un’altra volta, ancora, e ancora più forte.

Grido e lui niente, quel braccio sempre là, colato a terra.

Se muore, voglio morire anch’io. Non ci resto solo, no. Che cazzo!

È allora che scoppio a piangere. Piango fino a prosciugarmi, coi singhiozzi a strozzarmi la gola, la testa che mi scoppia, la contrazione dei muscoli che presto si fanno liquidi, tanto che crollo sulle gambe. Mi corrono in testa stupide immagini, come la volta che si scottò le dita e non poteva neanche portarsi un bicchiere alla bocca, o la puzza senza rumore del peto con cui riempì la chiesa, al funerale di nonno, e che respirammo a bocca aperta, perché morivamo di risate, il gorgoglio del fiato quando russa certe notti, finché non gli lancio un urlo o qualunque cosa trovo sul comodino.

Scappo in cucina per telefonare al numero d’emergenza, a mamma o a papà, ma m’accorgo che non ho la voce. Non so fare altro che accucciarmi sotto al tavolo, con la testa tra le ginocchia.

Non so quanto tempo passa, so soltanto che a un certo punto mi sento scuotere ed è lui, è Marco, che mi chiede che cazzo ci faccio là sotto.

«E tu? Che facevi? Perché non mi rispondevi?»

«Dormivo! Che vuoi che facessi.»

Il volume della playlist dentro le orecchie. S’era addormentato e non mi sentiva. Capito il tipo? Gli Imagine Dragons negli auricolari, beatamente disteso come un profugo. E io che volevo schiattare d’infarto.

«Hai visto che ti sei combinato?»

Mi strattona per un braccio e mi porta in bagno.

«Hai ricominciato? Cazzo!»

Dentro lo specchio mi vedo la faccia gonfia, piena di graffi, abrasioni, sangue. Non sembro

nemmeno io.

«E le braccia? Guarda là… Non te lo ricordi il casino coi servizi sociali?»

Me lo ricordo, certo. Ma sto attento a non tagliarmi, da quella volta.

«Se per colpa tua piomba ancora qua quell’assistente, te la faccio pagare. E sai che non scherzo».

«Mi hai fatto spaventare. Pensavo che eri morto e volevo morire anch’io.»

Forse si intenerisce, si stempera.

«Ti scortico di schiaffi, dice. Così creperai davvero.»

E mi trascina in camera, sul letto, cercando di uccidermi sotto un mulinare di colpi da kung fu a dita tese come lame.

Quasi moriamo dalle risate, fino ad addormentarci. Cioè fino a che lui si addormenta. Io, steso sulla schiena, le braccia a coprire gli occhi, mi fisso a pensare a tutte le cose che quel ragazzino non può più fare.

Quello del tigì.

Come ci starei io? Chissà se morendo s’è tenuto gli occhi aperti a guardare, se ha visto la faccia di chi l’ha ammazzato. In ogni caso, non saranno più aperti, adesso. Ho visto migliaia di film in cui il medico legale spinge una carezza sopra gli occhi spalancati dei morti e fa scendere le palpebre.

Tirare giù le palpebre è un gesto di carità.

E sapete che c’è? Provo anch’io a tirarmele giù. Mica uno scherzo. Fa impressione. Comunque non riesco a dormire neanche così, con gli occhi chiusi. E allora li riapro, mentre il soffitto si muove, galleggiando nella luce lattiginosa del lampione di strada.

Come la luce fosse acqua e il soffitto una zattera che scivola avanti e indietro.

Mi tocca alzarmi ad accostare le tende. Il lampione risucchia la luce nella notte, alto e nudo, con le automobili allineate, pancia a terra, in fila. Lo capisco da me che non riuscirò più a dormire, neanche se continuo a impegnarmici per un migliaio d’anni, perciò in punta di piedi mi intrufolo dentro al letto di Marco. È tiepido, mi trovo un angolino in cui accucciarmi, lui brontola, si stranisce ma non si sveglia.

Tutti, ma davvero tutti non fanno che parlare di quell’idiota di ragazzino, manco fosse un caro amico, e vanno a lasciare fiori, pupazzi, disegni sulla strada dov’è stato ritrovato. Salta fuori che studiava pure alla Cadorna e un po’ per bastardaggine un po’ per solidarietà la prof di italiano ci assegna un tema sulla faccenda. Non so quanto valga, ma una schiera di ragazzi adesso ha i quaderni fitti di statistiche sulla mortalità per le strade, sull’inciviltà di chi non si ferma a soccorrere, sul valore della vita e compagnia bella.

Poteva prendere lo scuolabus e non si sarebbero incasinate le cose, dico io. Pedalandosene a casaccio s’è inguaiato e ha messo in croce un sacco di gente. Non è che uno si sveglia la mattina e programma di ammazzare un ragazzino per la via.

Succede.

Io per esempio non ci ho mai riflettuto, ma non mi spaventerebbe morire.

Sarei più incazzato che spaventato, ecco. Ma incazzato sul serio, che spaccherei tutto per la rabbia.

Perché io sono fatto così, che se mi passano i cinque minuti…

Fa’ che all’assistente sociale gli viene in mente davvero di piombare qua. È capace che vado fuori di testa, prendo il coltello, quello grosso del pane e faccio un omicidio. Marco non ne parliamo neanche: fa una strage, lui. Elabora un piano per farmi evadere, se mai finisco in Casa Famiglia, coi documenti falsi per entrambi, nomi nuovi, nuove identità, la plastica facciale, una nuova sistemazione, una casa segreta dove nessuno ci trova più.

Marco è un tipo forte, ne sa una più degli altri.

Comunque stamattina quel cazzo di funerale non mi è piaciuto per niente. Non lo so se è legale che una preside, anziché tenerseli in aula, manda gli alunni in chiesa. Io non ci vado neppure la domenica o di Natale, capirete.

Voglio dire che non è facile tra i cori, i pianti, gli addii, le candele che in fila si consumano alla fiamma, le corone di fiori, la processione di parenti, la cassa portata a braccia, i palloncini bianchi risucchiati al cielo, le fotografie stampate sulle magliette degli amici.

Non è facile per niente.

M’è scoppiata una cosa dentro. Non so cos’è, ma mi spolpa e si spande. Una specie di nausea, di panico, anzi di speranza che succeda qualcosa, che qualcuno scopra finalmente come sono andati i fatti.

Forse sto esagerando, ma al novanta per cento credo, ecco, sono sicuro che Marco comincia a disprezzarmi. Perde la pazienza per niente, fatica a raccontarmi le avventure cruciali in cui s’infila, a scuola o in paese. In qualunque giorno c’era una storia o una tipa o una roba che ci faceva sbellicare, di cui non riuscivamo a capacitarci, neppure spremendone i dettagli durante tutta la cena.

Improvvisamente niente, mangio coi Soliti Ignoti o col tigì. Abbastanza duro.

Papà beve, qualche volta, al sabato sera, coi gomiti appoggiati al tavolo e gli occhi sul bicchiere, che riempie e vuota. Adesso però è Marco che si scola le bottiglie, seduto là, con le mani tra i capelli o in grembo. E non ho il coraggio di guardarlo.

«Sei idiota: ti ubriachi?»

Fa spallucce. Se ne versa ancora e inghiotte con più furia.

«Domani vado dai carabinieri. Dovrà pur finire questa storia»

«E l’idiota sarei io?»

Ecco perché sono qui.

Perché sappiate che non eravamo pronti a questo genere di cose. Io e Marco cercavamo solo d’andar avanti, di mantenere le cose insieme, ecco tutto.

Ma voi siete una Forza di sicurezza, forse voi siete capaci di strapparmi via dal cervello questo chiasso che non so cos’è.

Forse è il pensiero di papà e mamma. La gente scoprirà che siamo una famiglia di disgraziati: quattro solitudini messe insieme nei fine settimana. Diranno così.

Non mi capacito dell’infinita quantità di stupidaggini sa dire la gente.

Forse è la preoccupazione che non abbiamo avvocati di fiducia, né risparmi per pagarne uno. E che Marco non ha neanche diciott’anni, non ci pensava proprio a speronare quel ragazzino in bici.

Forse è quella maledetta mattina che mi perseguita, assalendomi la testa di continuo: Marco che accelera, le case e i soliti strati di prati e colline che ci schizzano di fianco, dietro, sotto le ruote. Noi che andiamo in scioltezza, io che sparo la radio al massimo, gli Imagine Dragons che suonano Thunder. E ci mettiamo a cantare a squarciagola, con una gran quantità di fiato, ballando con la schiena che s’inarca, le braccia che saettano qua e là, a ritmo, la musica intorno, e siamo fieri perché andiamo a scuola in macchina e sappiamo cavarcela, senza genitori e senza il rancore di non averli.

Quel ragazzino non l’abbiamo neanche visto.

C’è stato solo il rumore contro l’auto. E lo specchietto rimasto a scintillare sull’asfalto, in pieno giorno.