I racconti del Premio letterario Energheia

180_Costantino Dilillo, Matera

_Racconto finalista quarta edizione Premio Energheia_1998.

Alla Sagra dell’uva, l’orchestrina sulla piazza cassò i ballabili fra i ssa… sha… ssa… prova… dei microfoni che ronzavano e s’ingoiavano tranci interi di mazurke.

I suonatori succhiavano dalle bottiglie dopo l’arsura di tre polke cantate, due brazil e quattro makarene.

Rocco il barbiere salì sul palco, si avvicinò al microfono e s’impettì, tirando indietro la testa e scuotendo i capelli lisci a mazzettini sulle spalle.

Dall’orizzonte il Pollino lo salutò con un breve cenno di rocce e lui gli rispose toccandosi la fronte con tre dita.

Soffiò nel microfono e disse: DANZE!

Prima che arrivi il vento, aggiunse.

Rimase fisso come in posa qualche secondo pensoso e ridiscese concitato, scuotendo la testa e sussurrando esortazioni alle ginocchia nude che gli venivano incontro nel camminare chino.

L’inclito pubblico tossicchiante smise qualche secondo di sputare gusci di girasole sul sagrato e volarono sguardi fitti in diagonale e circolari e dritti verso il dottore che si era voltato di spalle finto distratto. Il silenzio parve di marmo bianco accecante. Gli occhi andarono allora tutti sul farmacista che aveva una buccia di seme di girasole che tremolava appesa al moschetto della barba e saltellava mentre con abilità dentaria lui sgusciava altri gherigli senza aiutarsi con le dita… La mascella si fermò e il farmacista volse il capo intorno a raccogliere gli sguardi ai quali rispose passandosi cinque dita sul muso ad andare e cinque al ritorno che ripulirono la buccia appesa.

Pilato, detto il Ponzio si lavava le mani; da queste parti ci puliamo il muso.

Il brusìo dei commenti tornava a smuovere l’aria e… Briscola, disse uno dei mezzi toscani a cavalcioni della panca di pietra come su un’altalena per anziani, all’altro mezzo toscano che dava le carte. Il capannello si raggrumava attorno a loro. Ridi con la briscola e piangi con la scopa, disse il vecchio all’avversario.

Vedi, vedi, disse qualcuno e tutti si volsero al palco, come un’onda, a gradi, tutta la piazza.

Rocco era tornato sul palco; al posto dei pantaloncini coloniali aveva un abito da sera blu con cravatta a farfalla sulla maglietta rosa senza camicia. Avvicinò il mangiacassette al microfono e tra i sibili di dissonanza e i fischi delle casse Davoli a otto vie si scatenò lo scroscio di tacchi di un flamenco che Rocco danzava compunto a tacchi e punte come un tip-tap di Freddastèr. Passava da una mano all’altra una scatola di fiammiferi tricchettranti come il bastone di Ginchelli e lanciava il cilindro immaginario con una mano per riprenderlo con l’altra mentre le sopracciglia invogliavano all’applauso sui denti gialli distesi nel sorriso. Si appoggiò infine al bastone immaginario, accese una sigaretta in un lungo bocchino, sorrise alla piazza attonita e col contegno un po’ ancheggiante di una star ridiscese la scaletta, ringraziando con sbuffi di fumo e brevi sventolii di falangi in aria. Ci risiamo, disse qualcuno, ma gli occhi buoni del droghiere detto il Mortadella s’arricciarono a sorriso e tranquillizzarono la piazza.

 

Il vento arrivò verso le dieci quando erano già nelle case o a respirarsi il vino nelle grotte fra i capillari di muschi che irretiscono le rocce. Sbuffò preavvisi in girandole di croste d’arachidi tra i vicoletti, crebbe riavvolgendosi nelle strettoie strappando gerani e poi colpì duro, comignoli e gronde, urlando nelle case, nelle cucine non rigovernate per la festa, sbattendo imposte e rubando cenere dai camini.

Il Mortadella andò a chiudere gli scuri, inferrò la porta e si tirò vicino Rachele che tremava. La voce gli rotolava lenta fuori dal petto raccontando d’altri venti e d’altre feste, di mietitori che dormivano per strada e di Chichella la ragazza con le trecce che partì con l’uomo della giostra, una notte che c’era vento e la madre il giorno dopo faceva finta di non sapere e si strappava tutti i capelli sulla piazza e qualcuno le diede da mangiare, per quel giorno. Rachele lo strinse forte e il pancione sobbalzò più volte, rassicurante nel ridere del suo tremore.

Le case si rannicchiarono e il vento si accanì sulle tegole sfoltendole da resti di nidi e vecchie piume di passeri cresciuti e poi lanciando cocci contro le imposte. L’ombra gigantesca di Giacomino ondeggiava fra lampioni e muri seguita dai suoi tre cani. Parlava solamente con loro. Qualche volta.

 

Giugno si addensò sui campi nella valle, raccolse forza fra le spighe abbaglianti e si scagliò furente sul paese. La pula d’oro contendeva l’aria alle mosche nel groviglio dei vicoletti.

Cittadini, passò gridando stentoreo il Barbiere nella canicola, questa sera, nella vostra piazza, grande spettacolo del sovrumano. Non mancate. Cittadini, accorrete numerosi, nella piazza, canti, balli e l’uomo che VVVOLA.

Arriva il caldo e parte Rocco, dissero nel bar strusciando fanti.

Già. Ti ricordi l’altr’anno?

Sì.

È proprio pazzo.

Giocati ‘sta napoli e passa il giro.

Quando aprì il campeggio sotto il Municipio.

Si, con le tende militari legate ai pali e ai fili della luce.

Ed il cartello camping turismo e tutto recintato con le corde dei cantieri.

Qualcuno rideva.

Ma poi… eh… Nicola?…

Eh, ma poi gliel’ho fatta vedere. Il primo cazzotto neanche se lo aspettava. Poi due allo stomaco per stancarlo e ceffoni sulla faccia che faceva sangue come una gallina. Gridava e batteva i piedi, ti ricordi, piangeva e batteva i piedi a terra come un bambino, vi ricordate?

Buon gioco con liscio e busso, disse il barista e tutti risero.

E poi, a calci nel culo glielo feci smontare il suo campeggio.

Nel paese…

È pazzo.

È pazzo.

Una lezione… che per due anni non ha disturbato e quando mi vede cambia strada.

Perché, dici che non gli è servita la lezione che gli diede Paolo la mattina di ferragosto?

Paolo a Milano fa il karatè nelle palestre, due pugni a corto e un calcio in faccia a giravolta come nei film e lui per terra che si contava i denti.

Intanto non la smette, disse Pietro Sparafucile dando le carte. Se lo prendo io… vedete che non esce più di casa. Se fa il fesso… poi lo aggiusto io. E scoprì due assi senza spade e il due di bastoni. E dite al dottore di non mettersi di mezzo, questa volta.

 

Signore e signori buonassera, benvenuti al magnifico spettacolo della grande serata LUK, diceva Rocco in piedi su una panchina della piazza. Attaccò un nastro nel marchingegno del caraoche col microfono, si concentrò e cantò, sulle note di “L’amore è una cosa meravigliosa” , “Tu-uu – te la prendi in cuu- uulo”, con il sorriso più soave che gli riusciva, mentre aggrottava i sopraccigli per l’alto sentire e la commozione. E sempre sorridendo cerimonioso, dondolandosi sulle anche, si aprì i pantaloni e cominciò a pisciare addosso alla gente che gridava e scappava da tutte le parti. Ansando per le trippe in salita arrivò il Maresciallo a trascinarlo via che ancora ricantava quella strofa. Se ne stette in casa per due giorni, che era venuto l’assistente sociale da Matera. Non mi potete chiamare tanto spesso, disse al Maresciallo. Io ho tanti assistiti gravi nella Provincia, e tutta questa strada per arrivare qui con questo caldo… Voi mi capite, Marescià. Mo’ tengo la famiglia al mare e vengo da Sibari, ma i chilometri so’ pagati da Matera. Siamo uomini, Maresciallo: se proprio è grave, io sono a disposizione vostra, me ne riguardi Iddio. Ma se sono piccolezze… dopo le ferie le vediamo insieme. A disposizione sempre, Maresciallo carissimo. Poi ricomparve, camminava con difficoltà ma diceva buongiorno a tutti. Quella stessa notte entrò in casa di Cumma Rosa la forestiera. Saltò dalla finestra, forse, lei non seppe dirlo e approfittò di tutte le parti della donna per presunti conforti propri che nella materialità carnale non trasse a compimento. Si avvalse invece, di cucchiai, mestole, scope e anche bottiglioni. La vecchia Rosa, imbavagliata di salviette sbarrava gli occhi e ringraziava il cielo. Ringraziava il cielo che in casa non ci fosse anche la figlia Marta con le due ragazze. Meglio a me, pensava, che non a loro, che Dio ci salvi. Adesso vediamo come ti va questo, sorrideva Rocco, e le infilava il cucchiaio da portata. No: è piccolo. Vediamo quest’altro, e con la delicatezza con cui si usano i rasoi, il mignolo verso l’alto, le inseriva il mestolo, prima dalla manica e poi dal coppo. Questo ti va bene. Proviamo questa scopa adesso. Va bene questa? E dopo la bottiglia, di nuovo la scopa, e poi di nuovo il mestolone: prima dalla manica e poi dal coppo.

 

A ottobre, con l’aria fresca, la storia di Cumma Rosa era passata nelle pagine interne del chiacchiericcio quotidiano.

Cumma Rosa fece due mesi, suo figlio Giovanni sei, Rocco il Barbiere quattro.

Cumma Rosa aveva fatto due mesi d’ospedale, Giovanni suo figlio ebbe sei mesi con la condizionale per aggressione, percosse, violenza privata e libidine violenta a danno di interdetto con le attenuanti della provocazione grave, ma con l’aggravante dell’offesa alla pubblica decenza. Così il Pretore definì giudizialmente quello che accadde sulla piazza quando Giovanni, accorso da Caserta, agguantò il seviziatore di sua madre.

Sei mesi, gridava Giovanni. A me. Ma io lo dovevo proprio ammazzare.

Se tu lo avessi acchiappato sul momento che lo stupro stava avvenendo, gli spiegava l’avvocato, l’azione violenta in danno del Falotti Rocco si sarebbe derubricata a legittima difesa del figlio del famiglio in gran periglio, non so se… Ma così, il giorno dopo, a freddo, e sulla piazza, davanti a tutti, e con l’aggravante della premeditazione, e che ti vide il parroco, e con quella scopa e quella cosa che gli hai fatto, poi… Figlio mio, ringrazia, che il giudice è stato pure clemente.

Falotti Rocco detto il Barbiere, dichiarato non punibile per infermità mentale, fece quattro mesi di cure e osservazioni nelle cliniche psichiatriche a Potenza.

E dopo i Santi tornò in paese, col suo passo lento e il sorriso a denti gialli. Lo sguardo un po’ dimesso dardeggiava tranquillanti e anche il fiato gli puzzava di caldaie di Tavor versate nel fegato. Il Maresciallo sedò una sassaiola di ragazzi e donne dietro la chiesa e Giovanni, in Paese per i Morti, gridava mantenetemi che faccio uno scongigno, mantenetemi e consegnava le braccia alle pie in gramaglie. Nessuno lo teneva ma Giovanni si teneva da solo e ripartì con l’AGIP di Caserta per Manfredonia. Qualche chiacchiericcio ancora e le vendemmie tiravano la volata già al Natale e all’anno nuovo.

 

Nella metà di agosto Rocco entrò in chiesa all’offertorio con i capelli legati in alto da un nastro arancione, il petto nudo zebrato di vernice luccicante e una gallina sotto il braccio che per lo spavento sporcava in ogni dove. Oggi si celebra il Santo Gral, disse ai fedeli, piantandosi a gambe larghe sull’altare. Spintonò da parte don Gaudenzio e cominciò a cantare nenie latine, stentato ricordo d’un anno in seminario.

Il Maresciallo e altri quattro lo acciuffarono fra le navate e lo portarono di peso dal dottore che, mi dispiace, disse, ma sono in ferie e rivolgetevi al medico di guardia.

Ma io sono il medico di guardia, disse il Dottorino che sudava freddo, bisogna interpellare quelli del consultorio, l’assistente sociale o quelli della USL e caro collega, disse al telefono il medico di guardia della USL di zona competente, qui non abbiamo servizio accettazione di pronto soccorso psichiatrico, non so che dirvi, provate a Potenza.

Presero la macchina del Caporale che faceva la guardia carceraria e siccome nel carcere non c’era mai nessuno, aveva molto tempo libero. Lui si mise alla guida mentre il Mortadella e Pietro Sparafucile si tenevano stretto in mezzo Rocco il Barbiere.

Ma la benzina chi me la paga? Disse il Caporale. Che facciamo la beneficenza?, che da qui a Potenza e poi tornare saranno quarantamila lire più le gomme e l’olio. Mortadella bofonchiò qualcosa e quello riprese, che se c’è qualcuno sempre disposto è il Caporale, e Caporale di qua e Caporale di là e facci questo favore e porta questo pacco a Matera e portiamo questo pazzo a Potenza; e io ci metto il tempo, la benzina e la salute a companaggio: e chi mi dice grazie…?

All’ospedale Rocco fu barellato per due ore nel corridoio e per farsi compagnia si cantava a voci alterne Ti amo-Ti di Umberto Tozzi. L’infermiere gli diceva di tacere e lui abbassava la voce per una mezza strofa e poi ricominciava, citando Pavarotti e scomodando Claudio Villa: Signore e signori Ti amo Ti, canta Claudio VVVilla. E riattaccava, e infine se lo tirarono dentro due portantini, mentre Mortadella fumava col gomito sul ginocchio in laterale per via della pancia e il Caporale discorreva con la guardia giurata dell’ingresso.

Dall’esame obiettivo, disse il medico di guardia al Mortadella quando aprirono le porte a ventaglio della medicheria, non si apprezzano stati di alterazione del comportamento, degni di rilievo. Sarà sufficiente non esporre il paziente ad elementi perturbatori e le azioni sintomatiche regrediranno spontaneamente, assieme alle fenomenologie para-patologiche da voi lamentate.

Sparafucile lo guardava fisso, con le labbra molli così che la sigaretta si reggeva solo appiccicata in una secca di saliva.

Guardate, dottore, disse in garbo Mortadella, che questo è proprio pazzo, ma pazzo vero. L’anno scorso, se guardate nella sua cartella, è stato ricoverato qui per venti giorni e l’avete visto pure voi che era pericoloso. E gli raccontò la storia di Cumma Rosa e che ora col caldo ricominciava a fare il matto.

Lo so, disse il dottore con una vocetta verde, che nei paesi i diversi non sono accettati né ben visti, ma questo non vuol dire che sono tutti matti e che ce li portate tutti qui.

Questo è un ospedale, non un cestino dei rifiuti.

Mortadella e il Caporale protestarono la pericolosità del soggetto (così si espresse il Caporale che ci aveva fatto un corso, una volta, sulle devianze) e che se lo avessero lasciato libero chissà che altro delitto poteva commettere; ma il dottore fu irremovibile: quattro ccìccì di benzodiazepine endovenose lo calmeranno e dormirete tutti tranquilli al

vostro paesello.

Come, disse Sparafucile, ottanta chilometri e ottanta a tornare per quattro ccìccì di benzine nella vena?

E questo chi lo tiene?, disse Mortadella.

Allora ce lo sistemiamo noi, gridò Sparafucile, lo leghiamo al letto come un cane alla catena e non lo sciogliamo più nemmeno quando è morto.

Il dottore ebbe un sussulto e sibilò fra i denti: vi diffido formalmente dal prendere simili iniziative.

Chiamate il poliziotto di guardia, ordinò all’infermiere, e in presenza dell’agente ripeté la diffida dall’adottare metodi di costrizione a carico del paziente, i cui diritti sono tutelati a norma di legge, e invitò l’ufficiale di polizia a ripetere via telefono gli assoluti divieti di contenzione sia al Maresciallo del paese sia al medico di guardia responsabile.

Per me quello è ricchione, disse il Mortadella e nominando invano santapollonia i tre si rimisero in viaggio, tirandosi dietro Rocco in pieno festival: si annunciava, si presentava, eseguiva il brano e si applaudiva. E ora un’altra canzone, orchestra diretta da Franc Purcel, canta Eros Ramazzotto. Bravooo!

 

Il paese è pieno di emigrati in ferie, disse l’assessore anziano, che sindaco e vice erano ai bagni in Altitalia: non lo possiamo lasciare in giro questo disgraziato.

No, disse Sparafucile, eccitato e spavaldo per l’ingresso fortuito fra coloro che dovevano decidere. È pericoloso. Con tutte le turiste in minigonna che girano in paese…

Ma il medico di guardia non sentiva ragione. Non mi assumo responsabilità: a Potenza gli hanno iniettato un farmaco e hanno escluso altre somministrazioni. Ma per lui è come l’acqua fresca, quello che gli danno nelle vene: è abituato. Come Gesualdo al vino, disse Mortadella e gli altri risero. Bisogna chiuderlo in una stanza e buttare via la chiave, disse l’assessore. Il sequestro di persona è un reato grave, replicò il maresciallo, e io … IO, io – non – lo – co-mme-tte-rò.

E allora fate una carta scritta, dichiarate che vi assumete voi la responsabilità se questo ammazza qualche donna in queste feste, o la figlia di qualcuno. Voi, Maresciallo, ci avete una bella figlia di sedici anni. E se tocca a lei, questa volta?

L’ufficiale impallidì e guardò il Dottorino che cercò lo sguardo del farmacista.

È sotto cura, disse piano: altri sedativi lo possono uccidere e magari senza calmarlo. Se voi mi fate la ricetta… io vi do quello che volete, che è dovere mio. Niente ricetta, niente medicina, e si strofinò il muso con i polpastrelli e con i dorsi, andata e ritorno.

Chiudiamolo là dentro, disse l’assessore indicando la stanzetta al piano di sopra del posto di guardia medica. C’è il lettino, l’acqua corrente, in giunta abbiamo deliberato il bagno ma non è ancora appaltato. Lo leghiamo al letto e stiamo tutti tranquilli.

La contenzione è totalmente esclusa, disse il Dottorino, sono stato anche diffidato dalla polizia.

Ma che ne sanno quelli.

No, no, non se ne fa niente, metti che viene fuori, qua mi rovino per un matto di barbiere.

Ma è per la sicurezza di tutto un paese, è a fin di bene, diceva il Mortadella.

E poi sono contrario, ci vuole anche nelle cliniche l’autorizzazione scritta del primario che concorda con i familiari il consenso informato previsto dalla legge. No, no, sono metodi nazisti, e che facciamo qua: il lager?

Ma è un pazzo furioso, urlò Sparafucile.

Anche i manicomi sono stati aboliti, non li leggete i giornali? Strillò il Dottorino.

Dottore, disse solennemente il Mortadella, non abbiamo molta scelta.

Maresciallo, siete stato diffidato insieme a me dal prendere misure coercitive su quest’uomo, si appigliò il dottore.

Rocco cantava e a Mortadella scappò da ridere. Facciamo così: lo chiudiamo in quella stanza, ma senza legarlo. Lo lasciamo libero di muoversi, gli diamo da mangiare, una bottiglia di vino buono, io gli porto pure la radio e se ne sta tranquillo lui, ma chiuso sotto chiave.

Il Maresciallo si illuminò, il Dottorino protestò, ma sprimacciarono la brandina, accesero la radio e lo chiusero dentro consegnando la chiave al dottore che la passò al Maresciallo aggiungendo, io non so niente.

 

Alle dieci di sera Rocco in un vicolo sotto la piazza, in abito da sera, giacca, brache e papillon sul petto nudo, chiese la mano di una giovane padana oriunda, bene in carne: mentre con la sinistra stringeva le falangi dell’amata, con la destra tentava di toccarle il cuore nella scollatura.

Gli strilli, i calci ed i ceffoni attrassero gente ed il Maresciallo non seppe resistere all’impulso di assestargli una randellata fra giacca e rognonata.

È pericoloso, disse dopo spaventato per il suo stesso gesto. Qui ci roviniamo noi, pensa il guaio che passò il figlio di Cumma Rosa…

Al carcere ci sono due celle di sicurezza, disse il Dottorino, chiudetelo là dentro.

Ma voi mi volete proprio vedere in Sardegna, sbottò il Maresciallo.

Il carcere si apre solo su ordine del giudice istruttore, ribadì il Caporale in servizio permanente effettivo a guardia del penitenziario abbandonato.

Ma da qui scappa dalla finestra, questo non è un posto sicuro.

E allora bisogna piantonarlo, disse il Maresciallo, la guardia carceraria ce l’abbiamo disponibile e gli monterà la guardia notte e giorno.

Ci mettete un carabiniere a piantonarlo, replicò il Caporale.

I carabinieri devono controllare il territorio in questi giorni festivi, si piccò il Maresciallo.

Io ho degli impegni, si irrigidiva il secondino, è festa anche per me a Ferragosto.

Ma tu sei sempre in ferie, lo canzonò il Mortadella che era sopraggiunto ancora masticando pezzi di cena arrosto. Un po’ di lavoro non ti farà male una volta tanto, e rise anche l’assessore.

Ma senti proprio chi parla, moglie e figlio nel negozio e lui si fa gli straordinari col tressette. Gli si era accesa una brace nell’occhio destro.

Qui perdiamo solo tempo, interruppe il Maresciallo, qualcuno verrà a darti il cambio tra qualche ora, d’accordo? Intanto dentro. Raccomandò minaccioso a Rocco di starsene tranquillo, salutò con una pacca il Caporale e li chiuse nella stanzetta tenendosi la chiave.

Rocco canticchiava disteso sul lettino e dalla finestra entrava a folate il brusio della festa. Il Caporale prese a passeggiare su e giù per la stanzetta, contando minuti e mattonelle, a turno, per ingannare il tempo. Poi si sedette sul lettino medico vicino alla finestra e si assopì.

Si scosse a notte fonda, quasi le tre, e come me l’hanno mandato questo cambio, rinfacciò a Sant’Eligio protettore dei cavalli. E visto che Rocco dormiva, dedicando contumelie alla cittadinanza tutta, saltò dalla finestra e se ne andò a casa per dormire nel suo letto.

Sei stato a donne, gli sibilò la moglie tra le lenzuola.

Ma non dire fesserie, sbadigliò lui.

A donne e a bere, rincarò la donna e la luna che filtrava dalle tende le tagliava il viso scavato facendo luccicare i denti. Puzzi di vino anche da lontano.

Ma se non ho neanche mangiato, stasera, non bevo vino da cinque anni, si lagnava il Caporale nella cantilena assonnata che gli rotolava dalle labbra torpide. Lasciami dormire.

Dormire? Vuole dormire, lui. Mi lascia sola tutto il giorno per andare a fare la bella vita, si ritira ubriaco alle quattro di mattina e vuole pure dormire ben tranquillo.

Ma non sono ubriaco, protestava il Caporale.

Si sente da come parli e da quanto puzzi. Stanotte non si dorme.

Ma sta zitta, che ti sentono i vicini, disse tentando la strada del che dirà la gente, del cui giudizio la donna mostrava preoccuparsi sempre.

I vicini ??, urlò la moglie, rizzando le ossa fra le lenzuola. Ma lo devono sapere tutti che razza di debosciato ubriacone mi tengo in questa casa.

Il Caporale nascose la testa sotto il cuscino per proteggersi le orecchie, ma la donna inviperita glielo strappò di forza e prese a schiaffeggiarlo e a graffiarlo in faccia. L’uomo tentò di divincolarsi, ma una gomitata nello stomaco scoperto lo rimandò ad accartocciarsi sul lenzuolo dove così la donna poté agevolmente accanirsi a colpirlo con lo zoccolo di legno che salva la volta plantare al naturale e tiene il piede riposato, ottantamila lire solo in farmacia.

Dopo le cinque la donna si placò e parve assopirsi; fra un insulto e un vituperio sospirò, si asciugò la bava e chiuse gli occhi.

Il Caporale dolorante riuscì a guadagnare il bagno, medicò i tagli e un po’ di graffi, solo i più grossi, s’impaccò con l’acqua fredda un occhio gonfio e mentre cercava in cucina la moka del caffè bussarono alla porta.

Sparafucile lo acciuffò al petto per la camicia e lo strattonò fuori di casa, rammentandogli a casaccio sorelle e madre. Gli diede il tempo di prendere la giacca e lo trascinò in piazza dove s’erano raccolti furibondi due carabinieri, il Maresciallo, il Mortadella in canottiera e l’assessore anziano che aveva rintracciato il vicesindaco.

Rocco, tutto nudo, danzava la morte del cigno sul palco grande per la banda e lanciava alti stridi verso le nubi ogni volta che posava con leggerezza un ginocchio in terra, protendendo le braccia verso il pubblico, verso il Pollino, verso il mare, verso il sogno, verso la libertà, verso un’altra vita.

Mi ha picchiato, mi ha caricato di botte, si arrotolò a mentire il

Caporale, guardate come mi ha ridotto, e poi è scappato dalla finestra… che potevo fare?

Maledetto fetente, gli gridò Sparafucile assestandogli uno schiaffone fra la nuca e il collo e un calcio di punta nella coscia, l’ha visto il carabiniere quando è uscito, s’era già spogliato dentro la stanza e tu non ci stavi.

Basta, basta, disse il vicesindaco. Adesso il dottore la deve fare questa ricetta così il farmacista si mette la coscienza a posto, gli facciamo due punture e lo mettiamo a dormire fino a dopo le feste.

Il Dottorino protestò, ma era stanco e cedette alle pressioni congiunte delle autorità cittadine e scarabocchiò dei farmaci illeggibili sul blocchetto bianco, poi mise il timbro. La firma gli venne un poco tremolante.

L’assessore buttò dal letto il farmacista e in breve tempo Rocco fu ridisteso sul lettino della stanzetta sopra la guardia medica e ricevette qualche ceffone e un’endovena.

Ho sete, disse, e si addormentò di botto.

Tu adesso, disse l’assessore al Caporale sulla strada, ti siedi là dentro e non ti muovi e lo sorvegli ogni minuto, ci siamo intesi?

Io non faccio proprio niente, gridò il Caporale, adesso basta, me ne pulisco il muso e me ne vado a dormire per cacchi miei.

Sparafucile gli fu subito addosso, il Caporale si divincolò ma fu agguantato dal carabiniere. Io sono un libero cittadino, gridò stridulo il Caporale tirando in alto la testa.

Tu sei un mangiapane a tradimento, lo rimbeccò l’assessore. Stipendiato dallo Stato, due milioni al mese dalle nostre tasse per non fare un cazzo tutto il giorno.

Fa la Guardia Carceraria, rincarò il vicesindaco, ma di quali carcerati?

Ma non è colpa mia se non ci sono detenuti, protestò la guardia.

È che nella vecchia giunta c’era tuo fratello, per questo hai avuto il posto, disgraziato fannullone, gli strillò l’assessore rosso nella faccia.

Eri tu che ci volevi mettere tuo cognato a questo posto dall’opposizione, non ti bastava un nipote all’anagrafe e il parente vigile sanitario a prendere regali dai commercianti.

Non vi abbottate mai.

L’assessore gli afferrò la faccia a mano aperta, mentre il carabiniere lo teneva stretto per le braccia e gli sputò catarro nell’occhio nero dalle botte. Dì a tuo fratello che quella variante alla discarica se la può scordare. La discarica si farà a contrada Peschiera, perché così vogliamo noi.

Già, sui terreni di tuo cognato, ladro come te.

Al carabiniere sfuggirono dai polsi le braccia del Caporale e volarono pugni e calci nell’aria del mattino.

Il Maresciallo e Sparafucile sedarono la rissa e trascinarono il Caporale nella stanzetta. Arrivò subito l’assessore con una corda e lo legarono ben stretto mani e piedi seduto sulla sedia.

Vediamo se lasci un’altra volta il posto di lavoro, disse l’assessore, fannullone parassita.

Il Maresciallo gli mise in mano un interruttore a peretta: questo è il campanello.

Se si alza e cerca di scappare, schiaccia il pulsante che il dottore da giù ti sente e ci avverte subito.

Non ti muovere, lo derise Sparafucile, e chiusero la porta a chiave.

Cercò subito di rompere la corda, gonfiando i muscoli, stendendo le gambe, pompando con i polsi. La rabbia gli dava tale forza che sentiva di potere spezzare tenendo il fiato le funi che lo legavano.

Poi cercò di assottigliare ogni angolo del corpo per sgusciare fuori dai legacci di quel bozzolo asfissiante e infine scoppiò in singhiozzi. A me. Mi hanno legato come un porco del macello.

Aveva sete. E fame. E il tempo cadeva più lento della goccia al lavandino chiuso male. Poi vennero le mosche a torturarlo. Per cacciarne una che si stava affogando nel grumo di sangue che aveva sotto l’occhio, agitava la testa sempre più forte scrollandola fino quasi a staccarla netta, e strattonava con la spalla anche la sedia che si ribaltò.

Cadendo urtò la tempia al lavandino e la vista gli si annebbiò e gli parve di sprofondare nella terra che si apriva roteando a risucchiarlo.

Si riscosse che era già buio, ricapitolò la situazione e scoppiò a ridere di gola già tossendo. Lui invece non lo possono legare, che è protetto dalla legge per i matti. E ridere gli faceva dolere il petto e le ammaccature e gli arti intorpiditi dai legacci.

Dalla finestra entrava l’eco della banda. Facevano l’Aida e si immaginava i paesani vestiti a festa sotto la luminaria a snocciolare lupini e bere birre. Il pensiero della birra fece soffrire le gengive asciutte e gli scappò ancora da ridere perché la moglie lo pensava di nuovo a ubriacarsi in qualche cantina oppure a donne.

Quali donne, poi? E sobbalzava steso sul fianco rannicchiato come la sedia che lo conteneva.

Non la resse più e l’orina si aprì la strada caldiccia, fra pelle e stoffe varie. L’odore era acre di rabbia, stanchezza e dolore. Senza alcun gesto di preavviso Rocco si sedette al letto, sveglio di colpo come un automa a batterie. Il Caporale lo fissava terrorizzato, non poteva difendersi così legato e la peretta del campanello era caduta lontano chissà dove.

Io ci vedo anche nel buio, disse il Barbiere. Cantiamo una canzone?

Il Caporale si sentì perduto, frugò fra le nostalgie fra le cose da non lasciare e ne trovò solo di molto vecchie. Pazienza, disse a voce alta.

Rocco gli si avvicinò lentamente, gli toccò gli occhi gonfi e lui tremò. Ma che, ti sei pisciato?, disse sorridendo. Povero amico mio. E con delicatezza, un nodo dopo l’altro, lo liberò dalla corda e lo accompagnò al lavandino e poi sul letto, dove lo lisciò amorevolmente e lo asciugò tutto con il lenzuolino delle visite. Riposati, gli disse.

Il Caporale chiuse gli occhi ma solo per un momento.

Sai che fece il Baco?, gli disse il Barbiere.

Te lo dico io: Si scelse il gelso e poi si sciolse.

Cosa?

È bello, vero?

Andiamocene, Rocco.

Andiamocene, disse il Barbiere e lo aiutò a calarsi dalla finestra riparandogli dagli urti le ferite.

Si avviarono guardinghi verso la campagna. Guarda, ci sono le lucciole, disse Rocco.

Nel cielo alle loro spalle esplosero calcassi e diane della festa.

Dammi la mano, disse il Caporale e Rocco gliela strinse forte nel buio delle querciaie.