I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2012 – 15 dicembre 2011 di Emilia Vento_Roma

Anno 2012 (I sette peccati capitali – L’accidia)

15 dicembre 2011

Scrivere un racconto sull’accidia, cazzo, mica facile.

Ho persino consultato il Devoto-Oli per sicurezza, per chiarirmi le idee, non ha aggiunto nulla che non sapessi se non l’etimologia- latina.

Una cappa, l’accidia o forse un incatenamento.

Una parola sbarrata, circoscritta al cattolicesimo. Un marchio d’infamia e un sentore di impotenza.

Da un passato remoto emergono i sette vizi- peccati- capitali e, da bambina, l’accidia, non me la spiegavo proprio; non c’era prete o genitore che me la definisse.

Gli altri peccati erano concreti, conosciuti e conoscibili, ma l’accidia no, lei era sfuggente, non era riconducibile a niente che conoscessi, quindi era una parola blindata, confinata al mondo della chiesa e ai suoi precetti, subita, mai interiorizzata.

Poi mi ammalai.

È strisciante la depressione, si insinua nelle membra, non solo nel pensiero, opacizza lo sguardo, toglie l’appetito e il sonno. Ma può anche succedere che mangi troppo e che dormi a lungo, troppo a lungo. In ogni caso la notte e il giorno si confondono e così pure il dentro e il fuori.

Spossatezza, un’enorme, inane fatica, vivere.

Sempre che sia vivere soccombere al vuoto- vuota. Dovresti lottare, ma non lotti più. Il tempo si sgretola e l’identità si squaglia.

Respiri perché non dipende da te, ti batte il cuore perché è un muscolo involontario.

Sei impossibilitata a fare, a pensare creativamente, strutturalmente, in modo costruttivo. Un odore di morte ti riempie le nari e lei stessa col suo respiro ti scompiglia i capelli sulla nuca. A volte ti prende la mano, la morte, ti coccola.

Il tempo passa.

Sono congelata, cristallizzata; e, fragile come il ghiaccio, posso spezzarmi o sciogliermi e sparire.

Non mi credono.

Sono un’adolescente.

Sei pigra, dicono e io urlo, urlo, ma il grido si perde tra dune di sabbia, intrappolato nel vento che lo conduce lontano.

Cresco perché la depressione non intacca la fisiologia, ma sono muta al mondo e sorda e cieca.

Sei accidiosa, dicono.

Riemerge dal catechismo- la prima comunione!- una parola adulta, che non capii e mi è incomprensibile anche ora, lontana, prossima solo al marchio dell’infamia.

Ti bollano, ti segnano.

Lo stigma cattolico.

Sono anni di dolore, di confusione, quelli. Un marasma sin dentro lo stomaco che duole perché la depressione danneggia anche il contenitore che la racchiude; questi corpi sfuggenti, raggrinziti, ripiegati e dolenti, gli occhi si fanno vacui, lo sguardo striscia, non si ferma mai; ciò che si vede è dietro le palpebre ed è innominabile,

tanto nessuno mi crede.

Per strada la luce mi ferisce, la folla mi spaventa, le voci gridano e presto il mio livello di angoscia sale a tal punto che il mio corpo cede ed io crollo a terra, fantoccio, cado e tremo, cado e tremo e continuo a cadere; il selciato blocca la mia caduta, ma non il mio tremore e gli occhi strizzati nel tentativo patetico di non vedere l’orrore non si disserrano, ostinatamente chiusi tentano di scacciare i mostri che loro stessi alimentano.

Ma nessuno mi crede.

Anche queste manifestazioni vengono ignorate: il mio malessere è una posa, non posso parlare, difendermi.

Allora disegno, disegno e leggo. Disegno occhi, sui margini dei libri, sui quaderni, disegno occhi e invoco l’acido lisergico che non conosco, non ho mai provato, nelle pupille vuote dei grandi occhi bistrati che affollano i miei pensieri ed ogni pezzo di carta mi capiti tra le mani.

Mi sento schizofrenica, scissa, separata.

A casa nascondersi; a scuola distratta, niente mi interessa più né la filosofia, né la chimica, né i poeti; fuori pavida, sfuggente, senza nessuna certezza.

È la stanchezza il filo conduttore di quegli anni, è  la notte della mente, è un incubo alzarsi, uscire, parlare e, naturalmente, continuano a chiamarmi pigra.

Piango spesso, ma poi anche le lacrime finiscono e non mi frega niente di niente.

La scuola va male? Spallucce. Nessuno mi ama? E chi potrebbe amarmi così come sono:inquinata. Già, al colmo del paradosso, penso che le colpe siano tutte mie e che io sia sbagliata, forse comincio a credere di essere pigra.

Fumo di nascosto, ma non bevo,solo molto più tardi mi scoprirò profondamente dipendente.

Cerco di farmi invisibile e poi neanche quello mi interessa più. Non mi interessa cosa pensano, cosa vogliono, cosa credono di fare, cosa dicono di me e cosa dicono a me.

Penso di me cose orrende, inconfessabili; hanno tutti ragione: valgo meno di zero, mi sento un bluff , è vero sono pigra, accidiosa, un’ameba; non oso chiedere amore e comprimo ogni desiderio di essere amata.

Sono un incubo gli anni dell’adolescenza.

Anche mia sorella sta male, lei diventa orribilmente grassa e siamo entrambe così sofferenti che non abbiamo spazio l’una per l’altra e lentamente diventiamo due estranee.

Noi che eravamo inseparabili, litigiose, ma inseparabili. Noi che, bambine, ci siamo date il primo bacio, lingua- lingua.

Noi che ci picchiavamo con violenza, ma che ci abbracciavamo piangendo poi, e lenivamo le nostre ferite profonde presentandoci in formazione compatta di fronte al mondo e alle sue guerre, noi combattenti solidali, noi contro tutti.

Accidiosa anche lei, ognuna a saziare i suoi mostri.

Facemmo poi scelte diverse, lontanissime tra loro, non fummo mai più un nucleo forte, fuse in un unico insieme contro tutti, smettemmo semplicemente di amarci, troppo comprese a combattere ognuna contro i propri nemici.

Fu un errore separarci, ed entrambe lo pagammo, ma allora eravamo sotto un fuoco nemico martellante e non ci rendemmo conto che il nemico era lo stesso e che combattendolo  assieme forse avremmo avuto qualche possibilità.

Nella depressione non c’è spazio per le alleanze.

Sembra un bollettino di guerra, è vero, lo fu.

Passò altro tempo.

A volte mi pareva di guarire, mi sembrava di sentirmi meglio, cercavo di aggrapparmi a qualche certezza, conquistavo uomini che non mi interessavano, piangevo sentendomi anaffettiva, fuggivo lontano dai sentimenti perché ne avevo paura e sotto tutto questo, tutt’altro che guarita strisciava la depressione pronta a ghermirmi nuovamente, a soffocare ogni maldestro tentativo di affrancarmi, a palesarmi la morte come unica via d’uscita.

E ci provai a morire, allora e più tardi con maggiore lucidità, ma non riuscii.

Non avevo nessuna collocazione, non c’era un posto buono per me sulla terra, non appena mi pareva di intravvedere una qualche possibilità di scovare un angolino che mi contenesse mi gettavo a capofitto nell’impresa, ma i risultati erano deludenti ed io, sconfitta, mi ritiravo espulsa o mi defilavo invocando l’invisibilità.

Un’altalena tra la fuga e la ricerca di appartenenza, un gioco al massacro.

 

Oggi.

Oggi ho trovato la cura: un mix di farmaci, di colloqui, di azioni, ma so che è lì, mai sopita, in agguato.

C’è di diverso che la conosco bene, riconosco le avvisaglie, ne sento l’odore, colgo i messaggi che mi invia e prontamente rispondo. Le riconosco il giusto peso, non la ignoro, non la disconosco.

Mai far arrabbiare una grave malattia, se fosse una persona sarebbe certamente permalosa.